Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 21 Lunedì calendario

I 60 anni di Maurizio Cattelan. Intervista

Maurizio Cattelan è l’artista italiano vivente più quotato al mondo. Nel 2016, il suo Hitler inginocchiato è stato venduto per 17,2 milioni di dollari. Lui, il 21 settembre, compie 60 anni e ci scherza su. Dice: «Finalmente sono consapevole di essere maggiorenne. Sto pensando di prendere la patente, mi sento pronto». E sembra di vedere il ragazzo che, alla sua prima personale, appese fuori dalla galleria un cartello con scritto «torno subito» e non tornò mai e che, a un’altra, espose solo una denuncia per il furto di un’opera invisibile.
Di quello che dicono di lei, tipo che è un genio o un imbroglione mitologico o uno Zorro dell’arte, o che prende in giro critici, musei, collezionisti, quale la convince di più?
«Voglio pensare che molti abbiano chiamato provocazioni quelle che per alcuni possono diventare riflessioni. Prenda Him, il mio Hitler. Per ritardi di produzione, l’ho visto solo già nel museo: mi ero ripromesso di distruggerlo se non mi avesse convinto. Quando ho visto le reazioni all’apertura della cassa, ho capito che innescava qualche considerazione sulla natura umana. L’arte, in fondo, serve a questo».
Una volta, rischiò l’arresto perché rubò delle opere per esporle come sue, spesso ha mandato un altro a spacciarsi per lei. Le strategie di evasione, l’inafferrabilità, sono sberleffo, sociopatia, ansia da prestazione o che altro?
«Fin da bambino, mi è capitato di soffrire perché mi sentivo nel posto sbagliato: a scuola, a casa, al lavoro, ma mi succede spesso anche al bar. Ho dovuto inventarmi qualcosa per sopravvivere: semplicemente, non mi sono fatto trovare quando la mia assenza era più funzionale della mia presenza».
Mi dia un’immagine di lei bambino.
«Sospeso in prima elementare, ho passato il pomeriggio in un parco a falsificare la firma di mio padre. È il giorno in cui ho capito che l’inganno paga».
La prima sua opera di cui disse: è buona?
«Ci sono voluti 25 anni. Quando li ho visti finiti, la sofferenza, la tragedia e il silenzio dei nove corpi di All chiusi nei loro sacchi mi hanno fatto tremare le vene sotto pelle».
Perché la morte è così presente nelle sue opere? Penso anche al Pinocchio annegato, a lei nella bara…
«Perché la vita è comandata sempre da due leggi basilari: si nasce e si muore. E l’arte può avere l’arduo compito di mostrare quello che tutti hanno paura di esprimere».
Da ragazzo, ha lavorato come infermiere e ha pulito cadaveri in un obitorio. In pandemia, come ha ripensato a quei giorni?
«Ho fatto prima l’infermiere dei vivi, poi ho preferito l’obitorio. Da infermiere, ho capito che i miei turbamenti non avrebbero aiutato il malato, per il quale è fondamentale l’energia di chi è vicino. Perciò la morte solitaria da Covid mi ha colpito profondamente».
Nel 2012, che effetto le ha fatto vedere la sua opera omnia al Guggenheim di New York?
«Ogni opera finita è un figlio che abbandoni nel mondo. Quella mostra è stata una riunione di famiglia ricordando i tempi andati. Belli, brutti, simpatici, sporchi e incompiuti. Ma dopo due mesi, ero felice che i figli fossero tornati ognuno a casa propria».
Perché subito dopo annunciò il ritiro?
«Per tirare una linea tra me e quello che avevo fatto: quella visione complessiva mi ha fatto digerire tanti errori, chiudere un cerchio. Dopo, mi sono divertito molto con Toilet Paper, il magazine fotografico fondato con Pierpaolo Ferrari, ma un artista è come un serial killer: ha sempre bisogno di una nuova vittima. Oggi, sogno un grande intervento in una città. Se potessi, intitolerei quest’intervista: AAA cercasi sindaco-mecenate».
Il Guggenheim ha appena acquisito «Comedian»: una banana vera appesa al muro con nastro adesivo. L’originale esposto a Miami era stato rubato e mangiato da David Daduna. Eravate d’accordo per fare clamore?
«È stato molto meno appassionante di così. Ho giocato con una banana per qualche mese, prima di plastica, poi di metallo. Poi, l’idea più semplice ha vinto: perché non una banana così com’era? Ha funzionato al punto che altri hanno ritenuto vantaggioso appropriarsene. L’arte è anche una staffetta tra brocchi».
Può dimostrare che il furto del Wc d’oro «America» al Blenheim Palace non è stata una farsa di marketing?
«Posso dire solo che avrei voluto che l’opening durasse tutta la notte, così forse avremmo ostacolato i ladri».
Come nascono i tre bambini appesi un albero di Milano?
«Sono il ricordo della mia lettura di Pinocchio, angosciato che lo impiccassero. Nascono dalle fiabe di streghe e lupi squartati. Ancora oggi, temo di svegliarmi da sogni inquieti sdraiato, con sei zampette pelose che si agitano nell’aria. Per alcune paure, non si è mai abbastanza cresciuti».
Che resta da raccontare su «L.O.V.E.», l’enorme dito medio esposto davanti alla Borsa di Milano?
«L’ha caldeggiata l’assessore Finazzer, l’ha raffreddata il sindaco Moratti e l’ha cementata l’architetto Boeri. Comunque, visto che la piazza è un parcheggio, L.O.V.E. è più una rotonda che un monumento».
Ci spiega il Papa abbattuto dal meteorite?
«Forse, La Nona Ora è stata un’uccisione psicanalitica del padre».
Da ex aspirante artista che viveva a New York con 5 dollari al giorno, che pensa delle quotazioni milionarie che ha raggiunto?
«Che ho avuto la fortuna di incontrare persone che hanno capito di me più di quanto ne potessi capire io».