Tuttolibri, 19 settembre 2020
QQAN20 19QQAN40 Su "La lezione di Enea" di Andrea Marcolongo (Laterza)
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Andrea Marcolongo ha le chiavi dell’Eneide. E infatti nel suo La Lezione di Enea, pubblicato per Laterza, risolve subito la prima e decisiva questione del poema più faticato della storia della letteratura: fu uno scrivere e un poetare obtortissimo collo, Virgilio non lo voleva scrivere.
Publio Virgilio Marone era un giovane dei dintorni di Mantova, capre e campi, con genitori vagamente arricchiti che volevano per il figlio più belle speranze di quelle che poteva offrirgli la campagna (gli rimase nei sogni, la vita semplice, ci sono scrittori nati sotto il segno dei versi silvestri sub tegmine fagi). E per il suo bene lo mandarono alle scuole. E le scuole importanti in quel periodo erano dentro le potenti mura dell’impero, a Roma.
Così, racconta Andrea Marcolongo, un ragazzo gracilino che aveva l’ambizione di farsi grande coi versi esametri ebbe da imparare l’arte di campare tra i corrotti capitali. Epperò le parole le aveva buone e facili, seppe farsi notare nelle alte sfere finché Ottaviano, proprio l’imperatore, gli commissionò il lavoro: fatti cantare pure tu dalla diva qualche ira funesta per i nostri italici posteri, servono poemi immortali anche per la magna Roma.
E il giovane Virgilio si piegò all’epopea. Serviva dunque un eroe, un viaggio, servivano gli dei e le peripezie, serviva un approdo laziale.
Il ragazzo mantovano cercò il grande eroe e quando lo trovò rimase male: era piccolo, l’eroe. Era il Pius Enea. Inconsueto era l’eroe e già parecchio stanco l’autore:
«alle lettere con cui l’Augusto lo tempestava per chiedergli, impaziente, di poter leggere il nuovo poema, Virgilio rispondeva che era soltanto all’inizio, di avere pazienza. Ma Virgilio aveva già smesso di voler scrivere l’Eneide molto tempo prima. Virgilio si guadagnò “i bisbigli di tutta la classe intellettuale romana”. Ovidio (Tristia, II, 533) rivolgendosi ad Augusto, chiama il poema di Virgilio “la tua Eneide” – nel senso che Ottaviano, il lavoro di Virgilio, se lo sarebbe proprio comprato. Ma Virgilio non era di nessuno, probabilmente nemmeno di sé stesso. Ancora una volta, a quell’ennesima delusione del Fato non poté che opporre resistenza. E poesia».
Perché questa è un’introduzione rivelatrice. Perché è qui che inizia il viaggio del Pius, non certo da Troia. Il dispiaccio iniziale dell’opera dice: Sono il pio Enea e porto sulle mie navi i Penati strappati al nemico – sono noto fin oltre il cielo. Cerco in Italia una patria.
Semplice, enorme e pure vagamente arrogante.
Chi è Enea? Eroe moderno, riferisce compatta e da sempre la critica. È Amleto prima di Amleto.
Di stranamente moderno, suggerisce l’autrice, Enea ha il tratto di carattere che oggi chiameremmo utile (nobile) debolezza. Non se la sente di essere eroe a ogni costo. E non fa attivamente l’eroe, se vogliamo dire così. Non è eroe quando c’è da sfidare i fati. Non è eroe quando rinuncia all’amore sapendo che Didone è perduta. C’è una calma sistemazione di quel che deve succedere. Succeda. Se esiste un modo di essere predestinati e a nulla vale l’umana insistenza, Enea ha capito come prenderla: senza epica classica. Senza dover essere Ettore. Trionfando all’arte della sopravvivenza, perché esiste un modo mirabile di farlo, date retta a Virgilio.
È un eroe che fugge, Enea. Un eroe che deve affidarsi al fato senza credergli.
Così l’eroe è colpito da ogni parte dalle parole assidue e sente nel grande cuore l’angoscia, ma la mente rimane immota, scendono inutili lacrime.
La versione dell’autrice è che la grandezza di Enea sia in un tratto: la solidità. «Questo è il talento fornito dalla pietas: saper essere, nella bufera, quercia. Fermezza come arma. Per non scivolare a valle, per non essere strappati via dal nostro posto nel mondo».
L’Eneide tutta sta in una sola parola. Pietas. Che spezza chi la spiega, proprio non si traduce.
«Arduo è tradurre la parola latina pietas – da secoli perciò si rinuncia» conclude. «Non si tratta affatto di «pietà» intesa come devozione nei confronti di un dio iracondo né di compassione per un essere umano ferito. I libri di testo spesso ne aggirano il significato in inconsistenti perifrasi che sfiorano il mistico. Oppure, per eccesso di sintesi, l’eroe diventa semplicemente «il pio», definizione pigolante che lo rende quanto di più distante da ogni immaginario epico e che non gli rende affatto giustizia».
Si procede per negazioni, qui è la bravura di Marcolongo, togliere l’epica all’epica: «Non è dunque carità, non è fede, non è misericordia la pietas di Enea. Significa avere uno scopo. Semplicemente, l’eroe s’impegna a fare ciò che si deve, e a farlo bene – Enea fa ciò che deve come se lo volesse. Non è affatto poco – nella catastrofe, è tutto. Con i cocci non si scherza».
Sono allora finiti i tempi greci, dove tutto era già scritto e tutto si poteva leggere. L’Eneide non ha un eroe proprietario, non ha un finale, chi naviga va per mare senza ingegno e senza lo spirito che serve a infliggere gli infiniti lutti. Infiniti lutti casomai si infliggono senza volerlo alla donna che amavi. Nessuna certezza all’orizzonte, qualche dio poco incisivo. Che libro dal futuro, cara Andrea Marcolongo, che ci hai riportato indietro.