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 2020  settembre 20 Domenica calendario

Biografia di Adriano Giannini raccontata da lui medesimo

Adriano Giannini a due anni e poco più ha spiegato al padre, alla madre e al cinema quali fossero i suoi confini. “Ero sul set di Film d’amore e d’anarchia, papà protagonista, e avevano bisogno di girare un flashback con lui bambino. Io ero perfetto. Così all’improvviso, forse con l’inganno, mi ritrovai in piedi su un tavolone di legno, con alcuni che mi spogliavano e subito rivestivano con abiti in lana pesante, di quelli che pizzicano, e diecimila lire in mano per sedurmi. Io ancora dubbioso. Fino a quando mi chiesero di sedermi su un vasetto, ma in quella fase della vita ogni tanto cedevo alla pipì nel letto, per questo mi vergognai; allora presi coscienza della situazione e, con un atteggiamento non legato all’età, mandai tutti a quel paese, scesi dal tavolone, e me ne andai accompagnato dalla frase ‘io il pagliaccio non lo faccio’”.
E il ruolo da pagliaccio lo evita anche oggi.
Adriano Giannini ragiona le risposte, spesso le fa partire da un io antico, vissuto e soppesato, in cui le certezze in teoria acquisite in realtà possono tramutarsi in fregature colossali (“per fortuna sono cresciuto con un padre che ripete, da sempre “perché non sono diventato un perito?”). E, come un destino vissuto secondo un canone inverso, è partito con le luci di Hollywood (“appena iniziato mi sono trovato su un set con Madonna”) per poi tornare daccapo e riprendere un percorso più lento e più stratificato. E oggi è tra i protagonisti di Lacci, il bel film di Daniele Luchetti che ha aperto l’ultima Mostra di Venezia.
Nonostante la sua famiglia, ha dichiarato di non essere cresciuto nel cinema.
I miei genitori si sono separati quando avevo un anno, per questo non ho vissuto appieno dentro al lavoro dei miei, come accaduto per altri “figli di…”.
Ci sarà andato…
Sì, ma sono ricordi sporadici, comunque belli; anni dopo, sono riuscito a vivere l’ultima fase della vera Cinecittà, quando lavoravo lì come operatore e mi trovavo a contatto con set importanti come per Il Padrino, o Capitan Fracassa di Scola.
La fabbrica dei sogni.
Quando era il momento della pausa per il pranzo, ti trovavi circondato da antichi romani, cowboy, magari i mafiosi de Il Padrino, più gli attrezzisti con il martello sulla coscia; oggi non c’è più, quando entro a Cinecittà mi avvolge un senso di depressione; (ci pensa) è stato fondamentale vedere la coda di quella magia, una magia composta da maestranze nate con il grande cinema.
E lei con loro…
Sempre, erano i portatori sani delle leggende di Cinecittà, portatori sani di un atteggiamento pratico e leggero nei confronti della vita; (sorride) una volta giravamo nel deserto del Marocco Il legionario con Van Damme e uno dei macchinisti, detto “Er Patata”, era famoso perché partiva sempre con un’adeguata provvista di viveri.
Pasta e pomodoro.
Nascondeva la pancetta e il parmigiano in mezzo agli strumenti da set; insomma da “Er Patata” potevi mangiare la carbonara a qualunque ora del giorno e della notte: una volta l’ho sorpreso di domenica mattina mentre nella roulotte stendeva la pasta per le tagliatelle, e sul fuoco il ragù cotto a fuoco lento.
Lei operatore di macchina.
È la posizione da prima linea, è il confine tra la scena e ciò che avviene dietro, sei quello più diretto, la situazione migliore per guardare e capire.
E cosa ha visto?
Le difficoltà, i momenti delicati, come vanno affrontate le crisi o le debolezze dei protagonisti; oggi sul set riesco a riconoscere i problemi prima che possano scoppiare.
Rientra nella categoria degli attori che vanno rassicurati?
No, ho bisogno di una dinamica di scambio; se mi rassicurano troppo, finisco per preoccuparmi.
Come andava a scuola?
Nella Roma degli anni Ottanta, la sfangavo; ero uno che non studiava tanto, mi arrangiavo, preferivo coprire le lacune con escamotage da furbetto.
Nella Capitale degli anni Ottanta, oltre a suo padre, c’era un altro Giannini celebre…
Il capitano della Roma? Qualche volta mi hanno chiesto se fossimo parenti, e qualche anno fa mi hanno scambiato per lui: “Ma sei il calciatore?”. “Mi dispiace, no”; (ride) venir confusi è un classico: due anni fa mi hanno chiesto se fossi Ugo Mastroianni, palese crasi di Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni, ho risposto di sì e gli ho dedicato un autografo.
Oltre al cinema, cosa sognava?
Di diventare uno sportivo: in quasi tutte le discipline raggiungevo facilmente la fase agonistica, per poi perdermi in quella successiva, quella del semi-professionismo: lì scattava la noia, si tramutava in obbligo e perdevo la sensazione del gioco.
Come mai?
A me piace il gesto, il colpo di genio, non mi interessa la competizione, quella cattiva: sono così anche sul lavoro.
È poco gossippato.
(Tono sorpreso) Eh, quasi mai; per starci devi volerlo, e a me non piace, e poi non esiste più lo star system, sono più famosi i protagonisti dei reality o chi va dalla De Filippi.
C’è un suo mito del cinema che poi è riuscito a conoscere?
Al Pacino, l’ho incontrato più volte; poi durante una Mostra di Venezia lo vedo uscire da una discoteca, ovviamente iper circondato da fan e fotografi; la moglie mi vede, mi indica a lui, mi fanno cenno di avvicinarmi, obbedisco, a quel punto lui prova a dirmi qualcosa, o almeno credo, comunque non sento, sposto la testa verso di lui, e gli rifilo una capocciata sul naso; (ride) entrambi avevamo bevuto.
Venezia quest’anno.
Situazione veramente strana: sgombra di turisti, e mi dispiace per i veneziani, ma bellissima, con un clima più rilassante, tutto più blando, anche con meno glamour e meno pressione mediatica.
L’hanno mai blandita per raggiungere sua madre o suo padre?
Ma chi?
Un attore, uno sceneggiatore…
Può essere, ma al limite sbagliavano persona, perché non sono il soggetto più adatto, tantomeno i miei.
Ha recitato diretto da sua madre, Livia Giampalmo.
La prima volta come operatore, ed ero all’esordio, poi anni dopo come attore ed è stata una situazione abbastanza strana, con una responsabilità maggiore l’uno per l’altra, entrambi rispettosi dei nostri ruoli, solo fuori dal set tornavamo madre e figlio.
Nessun imbarazzo.
Solo nelle scene di eros: in quei momenti le chiedevo di allontanarsi, di piazzarsi in disparte con il monitor.

In generale, cosa la imbarazza?
Sul set quando non mi vedo a fuoco con il ruolo o con quello che desidera il regista; lì mi sento sotto scacco del giudizio altrui.
Nella vita?
Sono abbastanza timido, quindi avverto una certa difficoltà, un po’ di disagio nel parlare davanti a tante persone; ancora arrossisco.
Il tempo aiuta.
Mica tanto, sono sempre alle prese con la domanda “che devo dire?”.
È tra gli attori del prossimo film di Moretti Tre piani.
Qui a regola non posso dire nulla.
Allora Moretti e lei.
Tutti ne hanno un po’ paura, e posso intuirne i motivi, ma per la mia esperienza maturata nel corso degli anni provo un profondo e vero affetto: è una persona che rispetto; (ci pensa) è un amico mio e della mia famiglia, anche sul set il nostro rapporto è stato caloroso.
Negli Anni 90 i produttori temevano il giudizio di Moretti.
Sì, ho sentito queste storie, e ripeto: non mi sconvolgo (attimo di pausa, è in giro con il cane, Alma, e quando parla con lei cambia totalmente intonazione della voce). Dicevamo?
Moretti sul set.
Con lui ripeti molte volte la scena, e per me è giusto e normale, uno stile legato agli anni passati, mentre oggi si gira con modalità più libere, camere in mano, per questo comprendo lo spaesamento di certi attori quando si trovano con registi più classici come Nanni o Tornatore.
Se passano in televisione il film che lei ha girato con Madonna?
Magari lo rivedo: in tv è forse meno peggio che al cinema.
Nel 2002 ha conquistato i Razzie Awards come peggior pellicola dell’anno…
Non è venuto bene, ma non è così drammatico; per il lancio del film ero negli Stati Uniti, e da semi-sconosciuto, mi sono ritrovato a Hollywood con Madonna, Guy Ritchie, le più alte liturgie del caso e una serie infinita di riflettori addosso.
L’ottovolante.
E dovevo stare attento a tutto quello che dicevo, temevo di sbagliare qualcosa; invece fui l’unico a salvarmi dalle critiche; (cambia tono) comunque già durante le riprese avevo capito come sarebbe andata a finire, ero cosciente che mancava qualcosa e provai a dirlo.
Lei in mezzo al vero star system.
Lì era surreale, sembrava uno scherzo grottesco del destino e per fortuna ho vissuto il quotidiano con un perenne sorriso. Oggi non sarei in grado, avrei le ansie; (ci pensa) allora quella parte l’ho preparata in un solo mese e in inglese; alla fine sapevo le battute di tutti, poteva accadere qualunque cosa che non mi sarei mai fermato.
Suo padre?
Mi disse: “E quando ti ricapita di prendere a schiaffi Madonna?”. Era l’unico atteggiamento giusto.
Chi la conosce non la inserisce tra “i figli di” con il complesso del genitore-mito.
Gli sono molto legato anche se non ci vediamo tantissimo, perché siamo sempre in giro per lavoro; però questo dipende da come ti hanno educato i genitori, e papà è sempre stato uno low profile rispetto alla professione, l’ha sempre presa con ironia e gioco.
Per il resto del mondo resta Giancarlo Giannini.
Sì, ma dentro casa resta l’uomo che ridendo ribadisce, con reale pudore: “Mi vergogno, in realtà volevo diventare perito”.
E sua madre?
Mi ha aperto le porte del cinema, come avviene in tutte le famiglie, però dal primo scalino: pulire le macchine da presa e portare i caffè. In quegli anni sono stato bravo a mettermi sotto e non protestare mai.
Le hanno mai fatto la guerra in quanto “figlio di”?
Quando ero operatore mi hanno massacrato, ma ci stava; galleggiare con le mie forze mi ha permesso di appartenere a questo mondo, senza dire grazie a nessuno.
A cosa è sopravvissuto?
(Silenzio carico di sospiri) Rischiamo di cadere sul pesante. Andiamo oltre.
Vizio.
Le sigarette: a maggio compio 50 anni, dovrei smettere, ma siccome sarò impegnato su un set, l’appuntamento con l’addio l’ho rimandato a ottobre.
Fobia.
Non amo i luoghi pieni di persone, mi viene l’ansia.
Chi è lei?
(Il silenzio diventa infinito) In quante parole?
Qualcosa di pubblicabile.
Ci devo pensare (e prosegue nel mutismo).
Restiamo con la riflessione aperta?
Un lungo silenzio con un punto interrogativo finale.