la Repubblica, 20 settembre 2020
Le regole di ingaggio tra politici e giornalisti
Piuttosto che accapigliarsi sull’entità della spinta che Grillo avrebbe inferto a un giornalista che lo riprendeva con il cellulare, e se il susseguente inciampo del giornalista lungo i quattro gradini di un bar sulla spiaggia sia stato causato dalla spinta stessa oppure dallo spavento, bisognerebbe provare a ridiscutere, ma sul serio, le regole di ingaggio tra politica e giornalismo. Oggi come oggi la faccenda è fuori controllo.
Da un lato è prassi corrente che fette di telegiornale siano appaltate a esponenti politici che recitano la loro frasetta senza rispondere a mezza domanda. E nei talk show, quando le domande ci sono, è molto frequente che i politici considerino superfluo rispondere nel merito, senza che nessuno li richiami alla decenza del dibattito. Maestro dell’arte di sottrarsi al contraddittorio fu Berlusconi. Ottimo allievo, oggi, è Salvini, vedi il confronto con Carofiglio: mentre parla lo scrittore, il politico fa le facce e considera di essersela cavata benone.
Dall’altro lato, è ugualmente indecente la pratica di ficcare un microfono in bocca, o un cellulare sulla faccia, a un tizio seduto al bar, che avrà pure il diritto, in quel momento, di non voler rispondere né apparire. Essere persona pubblica non significa essere in ostaggio del primo palinsesto che passa. Nel mezzo, a tutela di tutti, dovrebbe esistere un insieme di regole e di convenzioni, forse riassumibili in una soltanto: intervistato e intervistatore devono essere d’accordo sul fatto che si sta facendo un’intervista. Di lì in poi, l’intervistato è obbligato a rispondere alle domande. Oggi non accade né l’una né l’altra cosa.