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 2020  settembre 20 Domenica calendario

Smart working, quanto risparmiano le aziende

C’è un numero che da solo racconta il cuore della rivoluzione smart working, esplosa improvvisamente davanti all’emergenza della pandemia, e diventata nel giro di pochi mesi dogma per molti imprenditori e lavoratori. Diecimila. Sono fino a 10 mila gli euro che può risparmiare ogni anno un’azienda, per ogni dipendente in smart working. Anzi, più precisamente, per ogni dipendente in telelavoro, perché lo smart working nella sua accezione genuina è fatto di turnazioni tra casa e ufficio, mentre opera da remoto chi in azienda non ci va mai durante la settimana. Ecco, quei 10 mila euro spiegano perché un’emergenza si è trasformata in un’opportunità (in primis per le aziende), concentrando in pochi mesi un’evoluzione (o, da certi punti di vista, un’involuzione) che sarebbe durata decenni. Altre cifre per misurare la svolta: prima della pandemia in Italia lo smart working riguardava l’1,2% dei lavoratori del settore privato, per balzare all’8,8% in pieno lockdown (cioè quasi 2 milioni di addetti) e poi stabilizzarsi al livello attuale del 5,3%. Percentuali ancora più dilaganti nella pubblica amministrazione.
Andrea Gatti, manager della Expense Reduction Analysts, una società che ottimizza i costi aziendali, spiega come si arriva ai 10 mila euro di risparmio: «Dividendo pro quota tutte le voci che, al netto del costo del lavoro vero e proprio, cioè salario e contributi, gravano sul datore per ogni dipendente presente in sede, dunque affitto, facilities e manutenzioni, pulizie, servizi di vigilanza e portierato, aree parcheggio, mensa e aree break, utilizzo e manutenzione linee telefoniche, riscaldamento, energia elettrica, spedizioni, stampe e fotocopie. Sia chiaro, però, noi non interveniamo sulle persone, non apriamo la strada ai tagliatori di teste. Semplicemente ottimizziamo le spese delle aziende». Una precisazione che la dice lunga su l’area grigia ancora tutta da esplorare che coniuga lo smart working con i livelli occupazionali, con i diritti e le tutele dei lavoratori. Qualche giorno fa, e non è un caso, la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, nel preannunciare la revisione della legge del 2017 sullo smart working, ha parlato di diritto alla disconnessione e di carichi di cura che gravano sulle donne. «Lavoro in modalità agile da quasi vent’anni – racconta Giorgia Palazzo, collega di Gatti – e sono contenta come professionista, persona e madre. Ma serve un approccio olistico che accompagni il cambiamento in Italia. Lavorare da casa per le donne rischia di diventare un doppio impegno sempre». Insomma, se i vantaggi economici per le aziende (si arriva al 20% del fatturato), quelli esistenziali per i lavoratori e gli effetti positivi sull’ambiente (minor inquinamento da traffico e minori consumi di energia) sono innegabili, le controindicazioni dello smart working iniziano a delinearsi man mano che si esce dalle urgenze della pandemia. «In molte aziende, specie nel manifatturiero – spiega Francesco Seghezzi di Adapt – si ragiona sulle possibili tensioni e disparità tra quei dipendenti che possono accedere allo smar t working e chi non può fare a meno, per ruolo e funzione, di recarsi ogni giorno al lavoro». Una ricerca dell’Inapp giunge, ad esempio, alla conclusione che «l’eventuale diffusione del lavoro agile come ordinarietà, rischia di esacerbare le già esistenti disuguaglianze di reddito». Secondo un’altra analisi dell’Associazione di etica e economia Menabò, solo il 30% della forza lavoro italiana ha un’occupazione che si può svolgere da casa. Nel 60% dei casi il lavoro agile è praticabile per chi si trova al vertice della struttura occupazionale (manager, imprenditori e legislatori), per le professioni scientifico-intellettuali, per quelle tecniche. Non supera il 5%, invece, l’opportunità di lavoro a distanza per le occupazioni che prestano servizi, per gli artigiani, gli operai, gli operatori di impianti e macchinari e per le professioni elementari. E mentre il salario medio degli esclusi dallo smart working varia tra 500 e 1800 euro mensili, chi può lavorare da remoto guadagna tra gli 800 e i 3500 euro.
E ci sono anche le vittime collaterali, come la filiera delle attività economiche legate a uffici e centri direzionali delle città italiane: secondo le stime di Fipe-Confcommercio nel 2020 la spesa per il pranzo infrasettimanale registrerà un calo del 64,9% (-3,2 miliardi di euro), ovvero il valore equivalente al fatturato di 19 mila imprese e 38 mila addetti. «Parlare contro lo smart working potrebbe sembrare impopolare – dice il presidente di Fipe, Lino Stoppani –, riconosco anche io le tante opportunità che rappresenta. Ma il degrado del tessuto commerciale nelle città rischia di innescare disagi sociali complicati da gestire». Giorgia Palazzo declina con meno pessimismo questo aspetto: «È necessario ripensare i modelli di business di ristorazione, snack bar, take away, negozi, taxi…, riorganizzarsi intorno ad uno stile di vita che sta mutando, proponendo servizi che ad esempio possono raggiungere il cliente anche a casa, ma certo il cambiamento nei panorami urbani legato allo svuotamento degli uffici va valutato e affrontato con nuove idee, progettualità e innovazione». Facile a dirsi, ma intanto bisogna fare i conti con attività chiuse e mai più riaperte, quartieri fantasma, disoccupazione. «La vicenda dei gilet gialli parigini deve far riflettere tutti. Certi cambiamenti sociali vanno assolutamente governati», conclude Stoppani.