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 2020  settembre 19 Sabato calendario

Il corpo è nudo. La danza è politica

«Essere o non essere l’avanguardia? Parafrasando il poeta e artista catalano surrealista Joan Brossa potrei rispondere: “Non sono io l’avanguardia, sono gli altri a essere retroguardia...”. Quello che so per certo è che il mio territorio espressivo è il corpo, protagonista di tutti i miei lavori. Nudo, vestito, sessuato. Persino in installazioni come Walk the Chair (50 sedie pieghevoli con cartelli che pongono quesiti sul ruolo dello spettatore, ndr), per assenza, il corpo è protagonista, agisce e gioca. È il luogo dove si inscrivono il piacere e il dolore. È lo spazio della lotta, della rivendicazione, il territorio della vendetta umana, della guerra, della tortura: è il mezzo più politico attraverso cui si manifesta la parola. Per un’artista come me che viaggia dalla danza – da cui è partita la mia formazione – fino alle installazioni, il corpo attraversa tutti i paesaggi del pensiero, fino a essere utilizzato come arma. È il medium più vasto, quasi come la scrittura». La Ribot, nome d’arte di María José Ribot, è un’amazzone dal fisico longilineo, su cui il tempo sembra non avere presa. La chioma fulva emana un calore che si alimenta di temperamento ispanico. Istinto e simpatia, provocazione e derisione, ironia irrorata da una vena costante di erotismo intellettuale che seduce graffiando. La Ribot è il nome con cui la ballerina, coreografa e artista visiva madrilena María José Ribot espugna, da oltre trent’anni, spazi teatrali alternativi e gallerie d’arte, in temeraria solitudine o accompagnata da un manipolo di danzatori (preferibilmente donne). Metamorfosi, ibridismo, stereotipi sociali sui ruoli di genere sono le carte che ama sparigliare in un mazzo in cui si confondono performance, installazione live, danza, arti visive. È lei il Leone d’Oro nominato dalla direttrice quebecchiana della Biennale Danza Marie Chouinard: nell’anno più difficile per un’arte martoriata dalle restrizioni del distanziamento, questa «tragédienne selvaggia e minimalista» – come dice la menzione – porta una ventata di anarchica leggerezza che incorona un’identità artistica matura e controcorrente, capace di attraversare precarietà e crisi economiche con l’estro di chi, dalla nicchia in cui opera, conquista commissioni dalle Tate Modern di Londra, dal Centre Pompidou di Parigi, dal Reina Sofía di Madrid.
Ha iniziato studiando danza classica, alla scuola di Rosella Hightower a Cannes, poi con Victor Ullate a Madrid. Quindi la virata verso il contemporaneo. Il balletto non aveva potenziale espressivo?
«Anche il vocabolario del balletto può essere deformato. Nonostante ciò, continua a essere gerarchia, dittatura del virtuosismo. Nel suo estremismo formale, è accesso alla narrativa. Tutte cose che non mi interessano molto, per quanto adori seguire qualche classe di balletto. Ma come linguaggio è troppo ancorato alla tecnica, a valori patriarcali che non condivido».
Nel suo percorso artistico ha cambiato città e Paesi, partendo dalla Spagna della movida anni Ottanta. Come ha vissuto quel periodo?
«Mi considero più giovane degli artisti che l’hanno animato. Ho vissuto da ventenne un movimento che ha cambiato radicalmente la Spagna. Dopo aver studiato a Cannes, sono tornata a Madrid nell’82-84, scoprendo una città diversa: il cinema d’essai, gli artisti della movida, la pittura, sono stata anche sposata con un pittore-scultore. Avevo 20-22 anni e credevo fosse tutto normale. Solo più tardi mi sono resa conto di avere vissuto una giovinezza speciale in una Madrid dove tutto era nuovo. Quando mi sono trasferita a Londra alla fine del ’90, c’era un movimento di live art e arti visive che ricordava quella Madrid speciale. Così ho potuto vivere una sorta di seconda gioventù».

La danza è un’arte effimera e intangibile, difficile da commercializzare. Lei, con i cicli «Piezas distinguidas» (performance acquistate da un proprietario), è riuscita a metterla in vendita come un quadro o una scultura...
«La danza non rilascia scontrini: non potrà mai essere industrializzata, commercializzata. La sola dimensione percorribile è quella dal vivo, ma la danza non può essere catturata. Quando si fa coreografia, si cerca di afferrarla e impressionarla su dispositivi: ma la danza registrata è un’altra cosa, non è più la stessa arte. Quando ho venduto le Piezas distinguidas (il nome deriva da Les Trois Valses Distinguées du Précieux Dégoûté di Erik Satie, ndr) mi sono posta alcune domande: qual è l’oggetto della danza? Il momento in cui avviene live? E come si può dare valore a quel momento? Sono domande apparentemente senza risposta. Ne ho cercata una, appunto, attraverso questi lavori a partire dagli anni Ottanta fino al Duemila, quando avevo già completato tre serie e mi sono fermata. Fu proprio allora che mi chiesero di rifare tutte le Piezas distinguidas per l’esposizione Life Culture della Tate Modern. Si sono aggiunti Still Distinguished e, nel 2003, Panoramix che è la ricompilazione delle pièce passate. Mi ero detta: mi fermo. Ma se non porto più in giro le pièce non posso più venderle e per me è illogico. Dopo il 2011 ho ripreso, ma senza commercializzare, perché erano pezzi più filosofici».
Nella transazione immateriale il costo era segreto?
«In passato era una trattiva tra me e il proprietario. Poi, intorno al 2013, era uno scambio con grandi colleghi come Juan Dominguez, Mathilde Monnier, Jerôme Bel, fino alla Galería Soledad Lorenzo che ha comprato l’ultima collezione poi ceduta al Museo Reina Sofía. All’inizio il prezzo era simbolico: per rappresentarle, bastavano un microfono e un pullover. A poco a poco si è trasformato nella cifra per me necessaria a continuare i miei progetti. Una delle cose che mi è mancata di più in Spagna è stata la continuità, la sicurezza per proseguire un lavoro. È un grande limite del mio Paese dove i cambiamenti politici sono radicali e sconvolgenti: il risultato è che i progetti non durano che uno, due, al massimo tre anni. Ma dieci anni non sono niente per un processo artistico. Quindi, qualcuno che creda che la mia idea sia sufficientemente stimolante per essere coltivata è determinante per la mia continuità».
Non ha mai ricevuto sovvenzioni statali? Per essere un’artista indipendente è sempre stata legata a grandi istituzioni...
«Ricevo sovvenzioni minime. Un giorno, negli anni Ottanta, parlando con la collega Mathilde Monnier, scoprii che lei in Francia riceveva dallo Stato, a sostegno di un progetto, una cifra trenta volta superiore a quanto avevo io in Spagna per gestire tutto il mio gruppo. Da lì ho deciso. Quanto al rapporto con le istituzioni, non ha mai vincolato la mia indipendenza. Alla Tate ero legata per Panoramix. Ho molte collaborazioni, ma non sono attaccata a nessun carro. Il mio lavoro è sperimentale e radicale nel senso più essenziale, non così conosciuto. Gli spettatori che accedono ai miei lavori sono pochi per volta, cento, duecento persone...».
A Venezia, in ottobre, tornerà a danzare nuda le sue pièce. Esporsi allo sguardo del pubblico, a 58 anni, non le crea perplessità?
«La vita mi porta a fare cose che non ho pianificato. Anche a continuare a danzare nuda. Ho presentato per la prima volta Panoramix nel 2003: avevo già quarant’anni e un corpo maturo, mi sono chiesta se potessi rifare – a livello fisico, tecnico, emotivo – cose che risalivano ai miei trent’anni. Dopo lunga riflessione, ho trovato un accordo con me stessa. Ho continuato: Barcellona, Parigi, 2018, 2019. Ora è arrivata Marie Chouinard con il Leone: doveva essere per lo scorso giugno, poi, per la pandemia, è slittato a ottobre. Che fare? Fossi Madonna, avrei passato tre mesi a pomparmi i muscoli. Ma io devo fare tutto da sola, produrre, pensare ai costumi; non posso fermarmi alla mia forma fisica. Nonostante ciò, è l’autore – cioè io stessa – a chiedermi di rifare le pièce e obbedisco. Ho vissuto il lockdown, a Ginevra, in modo irregolare: è stato un confinamento molto rigido, non si poteva neanche uscire di casa. È in momenti così che si misurano gli effetti del neoliberalismo: i lavori precari agonizzanti, la gente borderline spazzata via...».
Considera l’installazione performativa «Laughing Hole» la più politica delle sue opere?
«È certamente la più diretta, dal momento che parla esplicitamente dell’invasione dell’Iraq, delle torture nel campo di prigionia di Guantánamo. Nel complesso, considero le Piezas distinguidas come lavori molto politici, in rapporto alla donna e al corpo, a come sono trattati nella nostra società. È un atto femminista. C’è molto lavoro di scrittura alla base delle mie coreografie, finché non entrano in dialogo con lo spettatore. È allora che devo adattare la plasticità della danza al suo sguardo, accordarla alla dinamica di potere con il pubblico».