Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 20 Domenica calendario

QQAN68 QQAN10 Per Isabel Wilkerson in America ci sono le caste

QQAN68
QQAN10

«Siamo come i proprietari di una vecchia casa che abbiamo ereditato, costruita in una zona bellissima, ma che poggia su un terreno argilloso e instabile che si solleva e si contrae nel corso delle generazioni. Alcune crepe sono state rattoppate, ma le fratture più profonde si sono allargate per decenni, addirittura secoli». Quella casa rappresenta gli Stati Uniti secondo Isabel Wilkerson, saggista afroamericana e prima giornalista nera, nel 1994, a vincere il Pulitzer, tra le autrici di riferimento di Barack Obama. Il problema principale, Wilkerson denuncia, è che, in barba a ogni sogno americano, quella casa si regge su uno scheletro tanto ingiusto quanto invisibile, costituito da un sistema di caste. Così determinante quanto possono esserlo «borchie e travetti in un edificio reale».
Wilkerson lo scrive nel saggio Caste. The Origins of Our Discontents («Casta. Le origini del nostro malessere»), pubblicato lo scorso 4 agosto in America. La tesi di fondo è che il concetto di razzismo non sia sufficiente a spiegare quanto accaduto e ancora accade nel sistema di potere, sociale, politico, economico, degli Stati Uniti. Con un cambiamento che è anche linguistico, l’autrice preferisce appunto parlare di «caste », individuando subito quella al vertice, i bianchi, e quella alla base, gli afroamericani, in mezzo alle quali si muovono gli asiatici, gli ispanici, i nuovi arrivati dall’Africa.
Il sistema delle caste, sostiene Wilkerson, precede il razzismo: il colore della pelle è stato piuttosto lo strumento di chi ha voluto fissare una gerarchia ferrea tra gli individui, dalla quale non si esce. Ciò non vuol dire che il concetto di casta e quello di razza (che, ribadisce l’autrice, «è un’invenzione dell’uomo senza fondamento scientifico o biologico») non siano coesistiti o non coesistano tuttora. Anzi, si rafforzano l’un l’altro. Immaginando un corpo, «se il sistema delle caste rappresenta le ossa, la potente infrastruttura che tiene tutti bloccati al loro posto, la discriminazione razziale è la pelle».
Il volume è frutto di dieci anni di ricerche ed è la naturale continuazione del precedente Al calore di soli lontani. Uscito nel 2010 (in italiano nel 2012 per il Saggiatore), quel primo lavoro ricostruiva la grande migrazione afroamericana dal Sud ad altre zone degli Stati Uniti, iniziata intorno al 1910 e durata una sessantina d’anni. Partirono anche i genitori di Isabel Wilkerson, per poi stabilirsi a Washington. «Scrissi di sei milioni di afroamericani che si spostarono in cerca di libertà – dice adesso la Pulitzer – per scoprire che la gerarchia li seguiva ovunque».
Ecco dunque la necessità di tracciare le radici del sistema e capirne gli effetti ancora oggi. È quello che Wilkerson fa in Caste, alternando storie (anche personali) e scrittura saggistica. Il risultato è un volume quanto mai attuale nel clima di tensioni razziali che scuote l’America, mentre il Covid-19 mostra con ancora maggiore evidenza gli effetti delle diseguaglianze. Entusiastiche le recensioni sulle principali testate statunitensi. Per il «New York Times» Caste è un «classico americano istantaneo». «Mostra come sono davvero gli Stati Uniti», ha detto tra gli altri Oprah Winfrey.

Scrive Wilkerson che il sistema delle caste «è nato dopo l’arrivo dei primi africani nella colonia della Virginia, nel 1619, quando si cercò di affinare la distinzione tra chi doveva diventare uno schiavo a vita e chi no. Col tempo le leggi coloniali diedero a inglesi e irlandesi più privilegi rispetto agli africani che lavoravano al loro fianco e gli europei furono inclusi in una nuova identità, quella dei bianchi, diametralmente opposta a quella dei neri». Un risultato frutto non di un singolo editto, nota l’autrice, ma di un processo in cui si sono «testati» gli esseri umani: «All’inizio, ora lo sappiamo, era la religione, non il colore della pelle a definire lo status di un individuo nelle colonie. Gli africani iniziarono a convertirsi al cristianesimo, ma questo era in contrasto con la fame degli europei di una manodopera malleabile ed economica per estrarre quanta più ricchezza dal Nuovo Mondo. Furono la forza fisica e la resistenza alle malattie degli africani a segnare la loro condanna». E, a quel punto, il colore della pelle, l’apparenza esteriore, fu funzionale alla «divisione delle persone in categorie».
Oggi negli Stati Uniti secondo Wilkerson – che nel libro attraversa quasi due secoli e mezzo di schiavitù, le leggi segregazioniste Jim Crow, fino alle violenze della polizia – il sistema gerarchico non è stato ancora superato e talora è interiorizzato anche in modo inconscio.
A sostegno della tesi che le caste precedano il razzismo e convinta che sia necessario uno sguardo più ampio, l’autrice si è anche messa in viaggio. Prima tappa: l’India, dove il sistema ha origini millenarie, ma è ancora influente, nonostante sia stato formalmente abolito nel 1950. In questo caso però le caste trovano una giustificazione nell’induismo, secondo cui l’anima si reincarna e diventa più o meno pura, e questo fa sì che si nasca in un gruppo superiore o inferiore. Più estremo, specie agli occhi di noi europei, il secondo parallelismo proposto dalla Pulitzer: quello con la Germania nazista. Pur con le dovute differenze, è però significativo il racconto di come gli stessi tedeschi, negli anni Trenta, presero a modello la legislazione americana degli Stati del Sud per formulare quella, terribile, che stavano inaugurando.
Quanto agli anni più recenti, Wilkerson riparte da Barack Obama. La sua elezione, riflette, non è stata tanto un segno di emancipazione quanto un’eccezione dovuta a una concomitanza di elementi. Tra questi, il fatto che l’ex presidente non sia discendente di schiavi, ma figlio di una madre bianca e un padre kenyano, il che ha reso la sua figura «più accettabile». Inoltre, chiarisce l’autrice, Obama non ha mai ottenuto la maggioranza del voto bianco, ma il 43% nel 2008 e il 39% nel 2012. «Per chi è stato sempre primo nella scala gerarchica, la sua elezione ha significato piuttosto una perdita di centralità». Questo meccanismo, un sistema di potere incistato e atavico, servirebbe a spiegare un altro apparente paradosso: «I liberal pensano che nel 2016 la working class bianca abbia votato Donald Trump contro i propri interessi. Ma in molti bianchi è forse prevalsa la spinta a sentirsi ancora parte della casta dominante».
Vivere in una società piena di pregiudizi tuttavia, precisa Wilkerson, fa male a tutti. Ci sono le violenze, ovviamente. Ma anche una totale mancanza di meritocrazia. E persino rischi per la salute. L’autrice cita studi medici secondo i quali «anche durante una benevola interazione tra persone di differenti minoranze possono alzarsi i livelli della pressione e del cortisolo. Queste reazioni espongono di più a rischi di infarto e attacchi di cuore».
Cosa fare? «Il sistema delle caste in America esiste da quattro secoli – ammette Wilkerson – e non può essere smantellato da una singola legge o persona. Il mio scopo è accendere un faro sulle sue origini, le conseguenze, la presenza nel nostro quotidiano. Ed esprimere speranza che si trovi una soluzione». Tra i suggerimenti, c’è la creazione di una Commissione che promuova «verità e riconciliazione», così che «ogni americano possa conoscere, per quanto straziante, l’intera storia del Paese». Non si può, conclude l’autrice, «risolvere nulla di cui non si ammetta prima l’esistenza».