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 2020  settembre 20 Domenica calendario

Le metamorfosi dell’autunno

Può esserci un autunno senza piogge, nebbia, foglie secche? No, naturalmente. Almeno nei nostri sogni e nei nostri ricordi. Perché, al di là della meteorologia, le stagioni sono anche qualcosa che costruiamo nella memoria e nell’immaginazione. Anche l’autunno può essere pensato in modi diversi. Greci e Romani lo guardavano più come la lunga coda dell’estate, ricca degli ultimi frutti maturi, piuttosto che l’anticipazione dell’inverno, come oggi siamo abituati a pensarlo. Poi ci sono le tante continue variazioni climatiche vissute nei secoli: periodi antichi di maggior caldo e momenti di maggior freddo nel primo Medioevo o soprattutto agli inizi dell’età moderna. Insomma, anche se è innegabile che l’autunno sia stagione segnata da forti precipitazioni, è naturale che l’immagine e il ricordo di quella pioggia siano cambiati nel corso dei secoli.
Se ad esempio si leggono le cronache del primo Medioevo, l’impressione è che a quei tempi, nulla o quasi fosse rimasto dell’abbondanza antica: degli autunni di sole, frutti e vino cantati da Greci e Romani. «Era come se il mondo fosse tornato al grande silenzio delle origini, quando né animali né uomini lo popolavano»: aveva detto nel VI secolo Paolo Diacono, il cronista dei Longobardi. E nelle sue parole era il senso di una decadenza ormai inarrestabile, fatta di città ridotte a spettri, villaggi al limite della sussistenza, foreste, paludi e brughiere che avanzavano nel paesaggio, cancellando i segni di pietra posti dagli uomini. Tempi di fame, di paura; dove il freddo e la pioggia magari non erano diversi da prima, ma forse si sentivano di più. E la natura appariva ora probabilmente più minacciosa che in passato. Sembra di leggerlo nelle parole di Gregorio, vescovo di Tours, che attorno all’anno 590 scrisse: «Forti piogge, profondi tuoni in autunno, le acque crebbero troppo. Una epidemia di pestis inguinaria devastò gravemente le città di Viviers e d’Avignone». Come se tutte queste cose fossero legate assieme: come se la corruzione del cielo fosse lo specchio di quella terrestre, degli uomini e dei luoghi.
E a quanto pare non era neppure troppo un’esagerazione: fu un’epoca segnata da ondate di freddo e inondazioni, e conseguenti cattivi raccolti, carestie ed epidemie. Ancora nel IX secolo le cronache ricordavano come le piogge persistenti finissero per distruggere cereali e ortaggi, o perché non vi era modo di porli al riparo o perché marcivano nei granai. Aggiungevano poi che allo stesso modo il vino fruttava magri guadagni, perché la mancanza di caldo lo faceva diventare aspro e acido; per giunta tali erano le inondazioni da rendere impossibile la semina autunnale. Un disastro insomma. Non stupisce che proprio a quel tempo cominciasse in Europa la marcia trionfale della lebbra, tipica malattia da denutrizione.
Se però facciamo riferimento al periodo successivo, le cronache e gli altri dati mostrano non pochi segnali di cambiamento. Sembra infatti che a partire dal X secolo le temperature cominciassero a risalire. Non dovunque nello stesso modo, ma in generale un innalzamento della temperatura sufficiente a spingere la coltivazione della vite sino all’Europa settentrionale, addirittura in Inghilterra. Ma anche in questo caso solo oscillazioni: alcuni secoli e basta. Fu nel Quattrocento che tutto tornò a cambiare, e questa volta in modo ancora più drastico. Piccola era glaciale, l’hanno chiamata gli studiosi, e probabilmente è un poco un’esagerazione, ma è certo che il mondo mostrò un volto più severo: inverni terribili e autunni sferzati dalla pioggia. E per quanto qualche anno fosse ancora buono, l’esistenza si fece più dura e incerta.

Quasi ogni dieci anni una carestia, accompagnata non di rado da epidemie che decimavano senza pietà una popolazione già prostrata dalla fame. E d’autunno tutto questo si vedeva particolarmente bene. A cominciare dai giorni di vendemmia, con rese che agli inizi del Cinquecento in mezza Europa non raggiungevano neppure la metà della norma: uve poco mature che davano un pessimo vino e molti vignaioli pressoché sul lastrico. E non era solo un problema di vendemmia: in autunno arrivavano spesso violente piogge torrenziali, vento e gelo. Capitava che già a fine settembre potesse fare un freddo fuori dal normale e che a ottobre cadesse la prima neve. Lo lasciarono scritto in tanti, con ovvia preoccupazione: nel 1591 il mago ed astrologo inglese John Dee appuntava sul suo diario che il mese di ottobre era stato segnato da tempeste, forte vento, pioggia e grandine. Ancora un secolo dopo si registravano gelate a metà ottobre.
L’anomalia di tutto questo si sentiva chiaramente. E faceva paura. Così non stupisce troppo che le fantasie apocalittiche fiorissero un po’ ovunque, alimentate dalla sensazione diffusa che il mondo stesse davvero per finire Qualunque tuono all’orizzonte poteva annunciare da un momento all’altro la carica dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Solo per dire che ci furono tempi in cui le piogge d’autunno portarono pensieri decisamente nefasti. Anche perché non era in fondo così chiaro come funzionasse il meccanismo: i primi studi scientifici per capire qualcosa della pioggia e delle nuvole sono del Seicento: prima Cartesio, poi Edouard Le Roy, che nel 1751 descrisse le nuvole come una sospensione d’acqua, e poi molti altri.
Oggi conosciamo bene la pioggia. Ma non è sufficiente: attraversati da nuovi cambiamenti, da un clima sempre più violento, guardiamo all’autunno con un misto di sentimenti. C’è il sogno di quella mezza stagione ormai perduta (e mai davvero per la verità esistita) e una paura che pensavamo sepolta: quella di chi guarda alla natura impotente di fronte alla sua forza.