La Lettura, 20 settembre 2020
«Ho visto l’inferno». Intervista a Emmanuel Carrère
Non discendiamo da un nonno georgiano, non abbiamo frequentato a lungo un mitomane assassino né un bandito nazional-bolscevico per trarne libri molto amati, non ci siamo convertiti adulti ai dogmi del cristianesimo abbandonandoli poco dopo. Non siamo scampati per puro caso allo tsunami in Sri Lanka, non abbiamo praticato lo yoga per trent’anni, né tantomeno interrotto uno stage Vipassana (10 giorni di Nobile Silenzio) per parlare di letteratura al funerale di un amico rimasto ucciso a «Charlie Hebdo». Non siamo stati ricoverati per quattro mesi in ospedale psichiatrico curando la depressione a colpi di ketamina ed elettrochoc e non siamo considerati uno dei due maggiori scrittori francesi viventi (l’altro è Michel Houellebecq). Non progettiamo di girare un film porno e probabilmente non scriviamo neanche sulla tastiera con un dito solo, come lui ha sempre fatto prima di questo libro (è passato finalmente a otto dita). Eppure, per quanto uniche siano le esperienze di Emmanuel Carrère, al loro cospetto scatta, inevitabile e potente, l’identificazione: «Uno di noi».
È forse il miracolo della grande letteratura, di sicuro il segno che lo scrittore ha raggiunto il suo obiettivo. «Ho il gusto dell’introspezione», dirà a un certo punto durante l’intervista, contorcendosi con invidiabile elasticità sulla sedia di legno nella sua casa parigina post-crisi, vestito di jeans e maglietta nera. «Mi dedico all’osservazione dei meccanismi psichici, che sono inevitabilmente i miei perché solo a quelli ho accesso. Capisco il rimprovero di essere narcisista, ombelicale. Ma non sento di dovermene scusare perché, malgrado tutto, è parlando di me che posso veramente parlare agli altri, e degli altri».
Yoga, uscito in questi giorni in Francia come sempre per la casa editrice POL, rappresenta forse l’opera in cui Emmanuel Carrère perfeziona definitivamente la controversa arte di affrontare l’universale della condizione umana a partire dal suo zafu, il cuscino per la meditazione. Come un Karl Ove Knausgård al quale succedano un sacco di cose, più bravo e succinto dell’autore norvegese, Carrère racconta gli ultimi anni della sua vita a partire da quando ha deciso di scrivere «un libretto sorridente e sottile sullo yoga», e si è trovato invece a comporre un volume di 400 pagine che comprende nell’ordine lo stato di grazia iniziale, poi lo yoga certamente, ma anche l’attentato islamista, la relazione clandestina con una donna sconosciuta, la fine della vita famigliare, la solitudine, il ricovero all’ospedale Sainte-Anne di Parigi, la diagnosi di disturbo bipolare e di depressione malinconica, la richiesta disperata di eutanasia, la terapia con gli elettrochoc e la lenta risalita passando per un soggiorno all’isola greca di Leros, al fianco di una volontaria americana e di giovani migranti afghani.
Due anni fa lei si trovava, sessantenne, vicino al traguardo definito da Glenn Gould come «la costruzione paziente, nell’arco di una vita intera, di uno stato di serenità e meraviglia». Nessun problema amoroso, professionale o materiale. Famiglia felice, carriera di grande successo. Insomma, poteva dire di avercela fatta.
«In passato avevo già sofferto di depressione, ma ormai era sparita, e da una decina d’anni. In più mi rendevo conto di essere felice. Mi sentivo in rotta verso la serenità e la meraviglia di cui parla Glenn Gould, ma come sempre le cose sono andate in un altro modo. “Vuoi far ridere Dio? Parlagli dei tuoi progetti”, dice la frase ebraica».
La depressione è tornata per fatalità, perché la vita segue cicli inesorabili come l’alternarsi dello «yin» e dello «yang», o c’è di mezzo la tendenza personale e più o meno inconscia all’autodistruzione?
«Credo che l’inconscio abbia giocato un ruolo, perché la mia discesa agli inferi non è dipesa da alcun evento esterno. Nessuna catastrofe, nessun lutto. C’è qualcosa che, malgrado tutto, ci fabbrichiamo da soli. È la famosa distinzione di Freud tra l’infelicità nevrotica e l’infelicità ordinaria. Quest’ultima, quella che dipende da fatti indipendenti da noi, mi è stata tutto sommato risparmiata, nella mia vita. In compenso l’infelicità nevrotica la conosco bene, e anche quella non è una passeggiata».
Quanto ha contato nel disastro, come lei lo definisce, la relazione con la donna che incontrava con regolarità negli alberghi, alla quale ha promesso amore eterno? Sente di avere chiesto troppo alla vita?
«Ci sono aspetti della storia che non ho voluto riferire perché non riguardano solo me, e questo è un limite che ormai mi sono dato nel racconto della verità. Ma i due aspetti sono concomitanti. Quando le cose vanno bene si mettono in moto forze interiori autodistruttrici. Cominci a combinare di tutto, a creare situazioni, a fare cose che possano favorire il passaggio all’altra fase, tanto oscura quanto quella precedente era luminosa».
Un auto-sabotaggio.
«Sì, certamente. Il sabotaggio di sé stessi è un tema molto famigliare».
In «Un romanzo russo» parla della sua convinzione e ossessione, da bambino, di avere causato la morte della governante perché qualche giorno prima le aveva dato uno spinta. Era uno di quei bambini che non dormono pensando all’inferno? O che fantasticano sul risvegliarsi una volta sepolti dentro la bara? È per questo genere di ossessioni, questa condanna auto-inflitta a negarsi la pace, che nei suoi libri ricorre la notizia spaventosa del bambino murato vivo nel corpo inerte per colpa di un’anestesia sbagliata?
«È così, corrispondo a questa descrizione. Ero un bambino molto inquieto... In questo libro parlo un po’ della passione che ho avuto ben presto da bambino per le storie macabre, e ancora più per le favole spaventose, dio sa quante ce ne sono. Tutti i bambini sono così, più o meno, e io più. Queste storie, e in seguito l’interesse per autori come Philip K. Dick, mi hanno aiutato a esprimere e allo stesso tempo a esorcizzare le ossessioni».
Si è chiesto perché era così?
«Me lo sono chiesto tutta la vita, ho fatto decenni di analisi per cercare di capirlo».
È all’ospedale psichiatrico che ha trovato finalmente sollievo.
«Sì, perché lì a un certo punto ti dicono “lei soffre di questa tale malattia”, e tu puoi dirti “non è colpa mia. È una cosa chimica, forse genetica, comunque non sono io che fabbrico la mia infelicità perché sono masochista, è il mio cervello che è malato, ha uno scompenso chimico che adesso i medici cureranno”. È un grande scarico di responsabilità. I dottori ti dicono “adesso la mettiamo in un letto, cerchiamo i farmaci giusti, magari non li troveremo subito ma li troveremo, e ci occuperemo di lei”. Questo è di enorme conforto».
Resta la questione della causa e dell’effetto: siamo infelici a causa di uno scompenso chimico, o lo scompenso chimico è solo l’effetto visibile di traumi emotivi, profondi o recenti, che sono la causa reale dell’infelicità?
«Sono incapace di rispondere. Forse una cosa non esclude l’altra. E il trattamento con i farmaci non esclude quello con la parola, cioè la psicoanalisi. I due approcci possono coesistere e ognuno ha le sue virtù. L’unica cosa che non capisco è la chiusura degli psicoanalisti nei confronti dell’approccio chimico, mentre gli psichiatri ammettono l’utilità della psicoanalisi. Posso dire che il litio ha davvero un effetto stabilizzatore, riduce l’ampiezza della bipolarità, delle montagne russe tra euforia e depressione. Trovo curioso che in più o meno trent’anni di analisi, dei tre analisti molto intelligenti che mi hanno avuto in cura, per i quali ho grande stima, neanche uno abbia mai avuto l’idea di andare in quella direzione, anche solo a titolo di ipotesi».
Come se lo spiega?
«Con una specie di integralismo e di grande chiusura ideologica della psicoanalisi verso la psichiatria».
Per non parlare dell’elettrochoc.
«Fino a qualche tempo fa era considerato una pratica arcaica e barbara, e abbiamo tutti in mente Jack Nicholson in Qualcuno volo sul nido del cuculo o Antonin Artaud ridotto a una specie di vegetale. Ma ormai l’elettrochoc si svolge in condizioni diverse, in anestesia generale e quindi senza alcun dolore fisico. Nel mio caso non so quanto abbia funzionato, forse meno dei farmaci, e resta lo spiacevole effetto secondario della perdita della memoria a breve termine. È misterioso, ma in molti casi utile. Il principio è quello di un reset, come quando si spegne e si riaccende un computer o uno smartphone».
Nonostante depressione ed elettrochoc, «Yoga» è un libro non privo di umorismo.
«Ho cercato di usare i due registri nello stesso momento. Senza alternare momenti tragici a momenti leggeri, ma tenendo conto dei due poli contemporaneamente. In fondo, è il principio stesso dello yoga, l’equilibrio, tenere due animali sotto lo stesso giogo».
E quindi c’è il racconto del ritiro spirituale, lo stage Vipassana. Alla fine dei 10 giorni, gli ospiti possono finalmente parlarsi, confrontare le esperienze, spiegare come hanno vissuto quel periodo di isolamento, meditazione e silenzio. Un momento solenne.
«Un ragazzo ha detto che a un certo punto per lui è stata veramente dura. Perché nonostante cercasse di concentrarsi sulla respirazione, accidenti, pensava tutto il tempo alla stessa cosa. Dieci giorni rinchiuso, senza alcuna distrazione, a pensare di continuo, assolutamente di continuo, alla stessa cosa».
E cos’era, questa cosa?
«“Le tette! Le tette!”. Quel ragazzo mi è stato davvero simpatico».
La prima volta che entra nel ritiro Vipassana è costretto ad abbandonarlo. La fanno chiamare, cosa ammessa solo in circostanze eccezionali, in seguito all’attentato a «Charlie Hebdo», dove muore l’economista Bernard Maris, compagno della sua amica Hélène. Al funerale dovrebbe parlare Michel Houellebecq, che però ha appena pubblicato «Sottomissione» e viene scortato in una località segreta. Al posto di Houellebecq parlerà lei, in omaggio all’amore di Bernard Maris per la letteratura.
«La tragedia ha fatto irruzione in un luogo totalmente isolato. Noi ospiti del centro Vipassana siamo stati le uniche 80, 90 persone in Francia, e magari nel mondo, a non sapere che cosa fosse successo a Parigi. Non che avremmo potuto farci qualcosa, ma è vero che mentre si faceva la storia noi ci concentravamo sulle terminazioni nervose delle narici».
I fatti del 7 gennaio 2015 sono l’occasione per parlare di Michel Houellebecq, e per l’ammissione: «Sono geloso di lui».
«Dichiararlo mi ha molto divertito. Perché è quel genere di cose inconfessabili, anche se non sono gravi e non fanno male a nessuno. Non è che non ci dormo la notte, ma è comunque difficile da ammettere perché si tratta di una debolezza, un sentimento meschino. Ma mi sono fatto un punto di onore nello scriverlo, perché è vero. E bisogna mostrare di sé anche gli aspetti meno edificanti».
Non pensa di avere punti in comune con Houellebecq, anche se lui fa fiction pura, talvolta di anticipazione, e lei non-fiction?
«Sì, ci sono elementi che ci accomunano, anche se a differenza di me lui è un vero romanziere, come lo era Balzac. Un romanziere che non è passato per le avanguardie del XX secolo, uno scrittore realista che ha una visione del momento storico che stiamo attraversando. Questo fa di lui uno scrittore impressionante, che resterà. Lo ammiro, non credo di avere la sua stessa capacità di vedere il mondo. Ma abbiamo cose in comune, sì, a cominciare dalla formazione e dalla passione per la fantascienza: lui ha scritto su Lovecraft e io su Dick, e sia io che lui pensiamo che questo genere di letteratura abbia la stessa importanza di opere considerate maggiori».
E quanto allo stile?
«Houellebecq e io cerchiamo di scrivere allo stesso modo, con la maggiore chiarezza possibile, e coltiviamo il desiderio di comunicare con gli altri. Entrambi abbiamo un punto di vista morale. Non penso di essere un uomo buono e non credo che Houellebecq lo sia più di me, ma nutriamo una grande preoccupazione morale».
La chiarezza sgorga naturalmente o è una conquista?
«È frutto di un sacco di lavoro. Cerco di avere una frase semplice, ma che afferri il maggior numero di cose possibili. Esiste una prima fase di scrittura, la più penosa, nella quale butti fuori tutto il materiale grezzo. È il momento in cui ti scoraggi, in cui ti dici che non ce la farai a tenere tutto insieme e a spiegarlo. Ma quando arrivi ad avere abbastanza materiale sul tavolo e cominci a organizzarlo frase per frase, quello è un momento di grande piacere. Molto lavoro e molta soddisfazione».
A proposito di preoccupazione morale, la frase «non sono un uomo buono» ricorre spesso. Non è anche questa un’ossessione, un sentimento di colpevolezza ancestrale, lo stesso che da bambino la faceva sentire responsabile per la morte della governante?
«Non dico di essere cattivo, non desidero il male altrui e non mi ritengo né crudele né perverso ma... Bontà significa una specie di benevolenza attiva e empatica verso gli altri. Tutto il contrario di un ripiegamento in me stesso che esiste, che deploro e contro il quale lotto. Credo di avere citato nel Regno una frase di Ernest Renan: “L’imperatore Tito non era buono per natura, si sforzava di esserlo. E questo andava ancora di più a suo merito”. Mi identifico molto con Tito. E poi c’è San Paolo: “Perché faccio il male che detesto invece di fare il bene che amo?”. È un po’ la storia di tutti noi, altri ne sono meno coscienti o meno preoccupati. Se lo dico di me stesso non è per vezzo o falsa modestia».
Nella seconda metà di «Yoga» racconta che dopo il ricovero il destino le offre la possibilità di sfuggire a sé stesso, ed è così che si imbarca su un traghetto in direzione di Leros, l’isola greca trasformata in hotspot per migranti. Qui incontra la volontaria Frederica, e insieme aiutate gli altri per aiutare voi stessi.
«È la caratteristica propria di molte persone impegnate nelle organizzazioni non governative. Cosa che non toglie nulla al valore di ciò che fanno».
Il personaggio di Frederica-Erica rappresenta una svolta nel suo percorso letterario, perché in parte è una figura fittizia.
«Per una questione di discrezione le ho cambiato il nome, e mi sono accorto che una volta che cambi il nome di una persona non è più lei, puoi prenderti ogni libertà. Mi sono lasciato prendere dal gioco e sono tornato, più o meno, a scrivere fiction».
Non lo faceva dal romanzo «La settimana bianca», l’ultima opera prima dell’«Avversario», che rappresenta lo sconvolgente debutto nella non-fiction. Erica è l’inizio di una nuova fase, l’abbandono della letteratura del reale?
«Non so dirlo ancora. Il mio amico cineasta Pascal Bonitzer mi ha scritto per dirmi “forse stai tornando alla fiction. Forse non hai più bisogno della realtà per arrivare alla verità”. È vero, ho preso piacere a buttarmi nella discesa della fiction. Forse è il preludio a qualcosa».
Le pagine su Leros sono anche l’occasione per parlare di una pianista straordinaria, Martha Argerich, e di un video in bianco e nero trovato su YouTube dove interpreta, a vent’anni o forse meno, la «Polacca in La bemolle maggiore», l’«Eroica» di Chopin.
«A un certo punto, al minuto 5 e 30’’, Martha Argerich ha un sorriso che arriva dall’infanzia e dalla musica, un sorriso che è gioia pura. È meravigliosa. Si ha la sensazione di intravedere il paradiso».
Un momento di sguardo verso l’alto e di speranza, dopo la discesa nell’oscurità. Quel video, da quando è uscito «Yoga», sta diventando celebre, cliccato da migliaia di persone.
«Mi fa molto piacere, è una delle soddisfazioni dello scrivere. È come quando hai amici a cena e a un certo punto dici “aspetta, ho scoperto un libro formidabile”, e ci tieni a farlo conoscere, ma può valere per un film o una musica, qualsiasi cosa. È una specie di regalo ai lettori. Un momento in cui vedi sul viso di una persona la grazia pura, un instante che trovo miracoloso e che mi piace condividere. Non è la prima volta che lo faccio».
No, in effetti. Nel libro precedente, «Il Regno», il consiglio ai lettori era stato un video porno.
«Anche quello piuttosto cliccato».
In «Yoga» a un certo punto dice che «il sesso è il modo di relazione umana nel quale mi sento più a mio agio e mi mostro al mio meglio». Non è sorprendente, vista tutta questa nevrosi?
«Infatti, lo dico non per vanteria, ma proprio perché è curioso. Quanto la relazione amorosa può essere problematica, tanto il sesso per me non lo è. Per esempio, posso provare senso di colpa in una quantità di situazioni, ma mai nel sesso. Tutta quella visione della sessualità come qualcosa di torbido, oscuro, dannato, tipica della tradizione cattolica, alla Georges Bataille per esempio, mi è totalmente estranea. Il sesso potrebbe essere il teatro nel quale la mia nevrosi si dispiega. Invece no».
Quando scrive pensa a qualcuno in particolare? I suoi libri sono anche una lettera aperta? Per esempio ai suoi famigliari, alle donne che ha amato e che ama?
«È un po’ difficile soprattutto per i miei genitori e per i figli. Il fatto che io mi mostri a nudo è moralmente difendibile, io credo, ma non scontato per chi mi sta vicino. Dopodiché è così e ormai si sono abituati. Ma è vero, c’è anche un elemento di spiegazione, di comunicazione. Non è semplice».
Lo yoga, la meditazione, sono ricorrenti nei suoi libri, per esempio già in «Limonov».
«È molto interessante, io credo, perché Limonov non è sospettabile di essere un tipo new age che brucia bastoncini di incenso. È un bandito che parla ad altri banditi, eppure dice che la meditazione gli è stata molto utile in prigione».
Che cosa le piace, in fondo, nelle discipline orientali, dal Tai Chi allo yoga, che frequenta da trent’anni?
«L’idea che possiamo diventare migliori. Anzi, che siamo qui per questo».
Eppure a 62 anni molti potrebbero dirsi «ho fatto quel che ho potuto, ho combattuto tutta la vita contro i miei difetti, adesso provo a prendermi per quel che sono».
«Non è incompatibile. Accettarsi un po’ di più per quello che si è, finalmente: anche questa è una forma di miglioramento».