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 2020  settembre 16 Mercoledì calendario

QQAFA13 Da "M. L’uomo della provvidenza" di Antonio Scurati (Bompiani)

QQAFA13

Roma, 15 febbraio 1925


L’alito è pesante, il dolore addominale opprimente, il vomito è verdognolo, striato di sangue. Il suo sangue.
I fogli inchiostrati planano nella pozza maleodorante. Impossibile leggere il giornale. Il suo corpo glorioso, gonfi o d’ipersecrezioni acide e di gas, ingoia aria e cerca ossigeno reclinando il capo all’indietro sul bracciolo del divano. Tutt’intorno, però, la stanza vortica in una giga di ferite aperte sulla mucosa ulcerata.
A essere onesti, quella stanza da letto, l’alcova in cui il capo del governo riceve a turno le sue numerose amanti, è un luogo poco accogliente anche quando non puzza di vomito sanguinolento. Le pareti tappezzate di velluto rosso e nero; nell’angolo un inginocchiatoio carico di santini, ricevuti dalle donne del popolo, e di medaglie, donate dagli uomini della guerra; quella grottesca aquila reale imbalsamata ad ali spiegate, catturata nel cielo di Udine durante un raduno di squadristi; sul pavimento la moquette, rossa anch’essa, prediletta per i bisogni corporali dal cucciolo di leonessa, omaggio di ammiratori ferventi. Un salotto, una stanza da letto, una cameretta per la servitù e nemmeno una cucina. E dappertutto una puzza pervicace da circo equestre. Benvenuti nella dimora del più giovane presidente del Consiglio d’Italia e del mondo.
Il dolore lo riagguanta, insiste, sordo, costrittivo. Dovrebbe forse chiamare aiuto, con l’ultimo fiato. Ma il Duce del fascismo non può elemosinare il soccorso di un piantone appisolato sul pianerottolo o di Cesira Carocci, la sua serva umbra di mezza età, ignorante come una capra, magra come un chiodo da crocefissione. Del resto, non è la prima volta. Da settimane, da mesi, le crisi si riaffacciano periodiche al suo esofago. Si annunciano con uno strano appetito, una fame sterile e nauseata, come un matrimonio asciutto, come una gravidanza isterica, poi partono le flatulenze, le eruttazioni. La settimana precedente Ercole Boratto, l’autista di fiducia, si è accorto del suo alito pestilenziale dal posto di guida. Alla prima curva di via Veneto, ha cercato il Capo con la coda dell’occhio ma lo specchietto retrovisore gli ha restituito il vuoto. Quando lo chauffeur si è voltato verso il sedile del passeggero, lo ha trovato accartocciato sulle ginocchia, le mani premute sul ventre gonfi o, i celebri occhi ridotti a feritoie e la tappezzeria insozzata di succhi gastrici. Lo hanno dovuto trasportare di peso fi no al letto, piegato in due come un apoplettico, il fazzoletto di un autista a nettargli gli angoli della bocca.
A questo si è ridotto Benito Mussolini, il Duce del fascismo, a un tubo digerente. Nient’altro che a questo. Le purghe e le loro conseguenze. Ecco il suo unico pensiero. Ha sbagliato tutto nostro Signore Gesù Cristo: avrebbe dovuto farci diversamente, dimenticare le budella. Avrebbe dovuto crearci nutrendoci d’aria, oppure ingegnarsi perché il cibo venisse assorbito senza poi bisogno di emetterlo. E invece ha condannato gli uomini alla perenne lotta per svuotare l’intestino, alla via crucis della stitichezza. E così, adesso, lui, il Capo delle legioni in camicia nera, il conquistatore d’Italia e l’italiano più ammirato nel mondo, se a cena mangia un piatto di spaghetti al pomodoro poi non evacua per tre giorni. E quando lo fa, se lo fa, deposita un bolo di feci catramose, grame e taglienti come un nocciolo di prugna.
Eppure non fuma, non beve quasi più, fa sport regolarmente e segue una dieta austera. Ma lui la conosce, la ragione di tutto questo: sono state la Grande guerra e la psicologia delle folle a rovinargli la digestione. Tutta quella carne in scatola inghiottita nelle trincee e tutti quei cestini da viaggio acquistati in qualche stazioncina dopo un’adunata e trangugiati di fretta sul sedile del passeggero mentre il fido Boratto lo guidava all’adunata successiva.
Ma, poi, a dirla tutta, la colpa principale è di Giacomo Matteotti, l’oppositore irriducibile, il “socialista impellicciato”, il figlio di agrari immolatosi per i contadini pezzenti. Di quel suo corpo ritrovato da una cagnetta in un macchione dell’agro romano, ripiegato a libro, con le gambe rivoltate sotto la schiena in una fossa troppo corta, scavata in fretta, con mezzi impropri – una lima da fabbro – calpestata a pedate e poi ricoperta sommariamente con terriccio di riporto. Al cadavere di Giacomo Matteotti va imputata la colpa di questa sua patibolare stitichezza.
E a quell’idiota di Giovanni Marinelli, il meschino e miserevole tesoriere del Partito fascista che, dovendo zittire Matteotti, per risparmiare due lire, per non spendere qualche biglietto da mille che consentisse a dei professionisti di mangiar bene e di portare a letto qualche donnetta, si era affidato a quattro scombinati causando con la sua spilorceria il più orrendo delitto politico del secolo. E così, la grettezza di un modesto burocrate aveva trasformato un oppositore isolato e fanatico in un eroico martire moderno della battaglia per la libertà. E aveva trasformato lui, il trionfante Duce del fascismo, in un groviglio dolorante di viscere attorcigliate. E lo aveva costretto – mentre i memoriali accusatori si moltiplicavano, la stampa d’opposizione imprecava, le campane della sinistra suonavano a stormo a difesa della libertà, e quelle di tutta la nazione a morto per Benito Mussolini –, lo aveva costretto a sacrificare tutti i suoi più stretti collaboratori come un principe russo che, per salvarsi la pelle, scaraventi ai lupi i cocchieri. Fuori tutti: Cesare Rossi, Aldo Finzi, De Bono, Marinelli, perfino Balbo. Si salvi chi può.
Poi, però, era venuto il 3 gennaio. Il giorno della riscossa. Il giorno in cui Benito Mussolini, ritto sul cassero della presidenza del Consiglio, aveva affrontato da solo il Parlamento in burrasca e aveva trionfato. Il giorno in cui Benito Mussolini aveva detto “Io”. Io solo – aveva urlato – porto la responsabilità politica, morale, storica di quanto è accaduto. Io sono l’Italia, io sono il fascismo, io sono il senso della lotta, io sono il dramma grandioso della storia. Se c’è qualcuno che osi impiccarmi a questo ramo nodoso, si alzi adesso e tiri fuori il sapone e la corda.
Nessuno si era alzato. Si era giunti a una questione di forza e la democrazia si era scoperta inerme. Si era, perciò, sottomessa. Certo, qualche patetico vagito di resistenza si udiva ancora. Il re si era rifiutato di firmargli in bianco il decreto di scioglimento delle Camere, ma gli aveva, poi, riconfermato la sua regale fiducia. Filippo Turati, il santone dell’opposizione socialista, aveva fatto spallucce e rassicurato i suoi adepti – “Tranquilli, è il solito Mussolini che urla per spaventare le passere” – ma poi si era limitato all’indignazione morale come se la morale fosse una categoria politica. Giovanni Giolitti, il grande statista, a metà gennaio aveva trovato ancora la forza per dissentire pubblicamente dalla sua proposta di riforma elettorale ma poi – Matteotti o non Matteotti – la legge era stata approvata con 307 voti a favore e soli 33 contrari. E, soprattutto, a metà gennaio la Camera aveva approvato in un solo giorno ben 2376 decreti legge voluti dal Duce del fascismo.
Inoltre, nel giro di quarantotto ore il suo ministro dell’interno aveva chiuso 95 circoli politici, 150 esercizi pubblici sospetti, sciolto centinaia di gruppi e di organizzazioni d’opposizione, controllato 611 reti telefoniche, 4433 posti pubblici, effettuato 655 perquisizioni domiciliari, arrestato 111 “sovversivi”. Sotto quelle generose palate di decreti e di arresti erano stati sepolti gli ultimi oppositori. E sepolti a una profondità che nessuna cagnetta infoiata avrebbe potuto scavare. Tutto il Paese, in quei giorni, aveva potuto constatare che Turati, Giolitti e i loro adepti non erano colonne della libertà ma semplici cariatidi da decorazione esterna. Tutti avevano constatato che quei sedicenti campioni dell’antifascismo erano solo agonizzanti che sognano le nozze.
Eppure, in questo preciso istante, a più di un mese da quella mano vincente, su questo divano insozzato, su questa moquette cacata da un cucciolo di leonessa, le fitte addominali mordono ancora le interiora. Il dolore, anzi, si espande. Scaturito dalla linea addominale mediana, ora s’irradia alla spalla destra, e da lì dilaga in tutta la regione dorsale e lombare.
Lui cerca di issarsi a sedere. Fallisce. Deglutisce a fatica la bile e si abbandona al deliquio.
È tutta colpa della precarietà. Dell’ora dubbiosa, degli indugi, delle esitazioni, un’ora che dura da anni e non trascorre. È tutto un rosario di tergiversazioni. Nonostante il trionfo del loro Capo, i membri del suo governo continuano a trasalire a ogni stormire di foglie. I fiancheggiatori infidi fingono un’adesione incondizionata ma poi sognano di resuscitare le cose morte del passato, il suffragio universale, la proporzionale, gli accordi sottobanco del sistema parlamentare. I vecchi e inconsolabili moderati si accodano all’atto di forza della dittatura ma poi rimpiangono le comode rendite dei privilegi oligarchici. È la condanna al compromesso quotidiano, allo stillicidio continuo, alla congestione parlamentare, alla politica ridotta a ordinaria amministrazione, al minimo risultato con il massimo sforzo. È il castigo della democrazia e lui lo sconta in questa mesticanza di vomito e sangue. Che senso ha avuto fare la rivoluzione per poi ridursi a strappare la vita giorno per giorno?
Ma c’è perfino di peggio. La spina più assillante è che, fatta la rivoluzione, restano i rivoluzionari. Conquistato il potere con la violenza, ti restano i violenti. Ti resta l’area dei combattenti, l’arena dei folli, la schiuma dei giorni, i facinorosi, gli spostati, i delinquenti, gli schizofrenici, gli irregolari, i nottambuli, ex galeotti, sindacalisti incendiari, gazzettieri disperati, i reduci esperti nel maneggio di armi da fuoco o da taglio, i fanatici incapaci di vedere chiaro nelle proprie idee, i sopravvissuti che, credendosi eroi votati alla morte, scambiano una sifilide mal curata per un segno del destino. Teste di legno, mediocri, ottusi, spesso ignoranti, balordi che devono tutto alla bellezza convulsa della marcia su Roma e per il resto della loro vita non fanno che rimpiangerla. Ti restano gli squadristi eterni, quelli che non disarmano, i militanti della prima ora, sempre con l’orologio in mano a rimproverarti che sia passata per sempre.
Lui non ha niente contro la violenza: il clima dell’epoca è quello che è, la violenza resta necessaria. Ma la nomina di Roberto Farinacci a segretario del Partito nazionale fascista gli attorciglia gli intestini. Farinacci che si erge a capo degli “intransigenti”, che s’innalza ad antemurale lombardo contro ogni antifascismo, che si esalta a custode della purezza rivoluzionaria, Farinacci Roberto è, in realtà, il popolano appena digrossato che capisce solo le questioni di forza, è il trionfo della provincia sulla città, della brutalità sull’intelligenza, dell’accanimento tattico sulla grande strategia, del cazzottatore di strada sul pugile olimpionico, del coraggio della rissa su quello del soldato. Farinacci è rabbia in potenza, annientamento del nemico, Farinacci è vivere azzannando.
Ciò nonostante, con Francesco Giunta e Cesare Rossi implicati nel delitto Matteotti, Italo Balbo impelagato in tribunale nel processo per l’omicidio di don Minzoni ed Emilio De Bono deferito all’Alta corte di giustizia, Roberto Farinacci resta necessario. La sua violenza è decisione che salva. Per questo motivo lui, Benito Mussolini, l’altro ieri, lo ha messo a capo del partito e per questo motivo adesso avverte di nuovo un’efflorescenza di vomito gorgogliare lungo la canna dell’esofago.
Poi c’è tutto il resto. C’è la lotta fratricida per le poltrone tra fascisti, c’è il fastidio per la biografia della Sarfatti che lo metterà in pigiama davanti al mondo, ci sono le infamie dei fuoriusciti che lo diffamano davanti al secolo, i cattolici che si ostinano a contendergli l’educazione della gioventù, l’impotenza italiana in Africa che lo degrada a un ridicolo collezionista di deserti, ci sono le trame occulte dei massoni, l’alterigia degli intellettuali, la degnazione dei Savoia, le speculazioni borsistiche, la crisi monetaria, i roghi della lira accesi nella pubblica piazza.
E, sopra a tutto, c’è l’idea della morte come estinzione, la morte come apocalisse, come fi ne del mondo. La grandezza tragica della situazione è questa: se io muoio, tutto si sfascia. Il regime fascista è, oggi, il modo d’essere dell’Italia, è l’Italia stessa, ma non resisterebbe un’ora alla morte del suo fondatore. Il fascismo rivolgerebbe i propri denti contro se stesso, i fascisti si sbranerebbero a vicenda in un batter d’occhio. Davanti a noi c’è questo grande mistero: nessuna idea forte potrà mai opporsi al cannibalismo. Soltanto io, l’uomo che dà forza allo Stato, al fascismo, soltanto io posso trattenere la fi ne; e, allora, lo Stato sono io, il fascismo sono io. Io, l’autodidatta, io, il figlio della serva, io, il tirocinante tardivo, io, il figlio del popolo che, passata la quarantina, si affanna ad apprendere gli sport, privilegio borghese, io che, con volontà e perseveranza, divento uno schermidore temuto e un cavallerizzo provetto con le lezioni di Camillo Ridolfi, io che imparo a pilotare un aereo, a correre in moto, a tenermi sugli sci, a nuotare con stile, io che imparo perfino il gioco del tennis. Io, caparbietà laboriosa, disciplina, buona volontà, cene frugali, io mi occupo di tutto, controllo tutto, dall’edilizia scolastica alle perdite negli acquedotti, io leggo centinaia di rapporti su ogni aspetto, annoto a mano, sui margini bianchi, per ore, pagine e pagine ogni santo giorno, io sono il mulo nazionale, io, il bue nazionale. E allora io non posso morire.
E per questo motivo resto attanagliato tra emicrania e stitichezza, stitichezza ed emicrania. Certe volte mi par quasi che mi si debba fisicamente spezzare il cranio, come in questo momento, su questo divano… sì, è come un martellamento continuo… mille disparati problemi, tutti urgenti, e tutti che battono e battono per entrarmi nel capo… case a Roma, acqua alle Puglie, scuole in Calabria e a Messina, una grande stazione a Milano… oramai ho l’Italia tutta in testa, come un’immane carta geografica, con tutti i suoi nodi, qui una strada, là una ferrovia, un ponte, con i rimboschimenti, i bacini, le bonifiche, con tutti i suoi problemi vitali. E allora io, io non posso morire.
La litania riprende: il delitto Matteotti, il fantasma di Matteotti, il rimorso per Matteotti. Le opposizioni la salmodiano senza sosta, vi si aggrappano disperate, incerte di esistere, come le prefiche si afferrano al pianto rituale di fronte al mistero nero della morte. È vero, non c’è dubbio, l’onorevole Giacomo Matteotti è morto. I miei fascisti lo hanno scannato. Ma io non posso morire e, allora, la mia risposta è la seguente: i tribunali giudicheranno i responsabili. Un regime politico non può essere giudicato da un tribunale ma soltanto dalla Storia.
In fondo, a cosa si riduce tutto questo psicodramma nazionale per l’omicidio di Matteotti? A un consumo d’inchiostro a quintali, a tonnellate di carta stampata, a chilometri di articoli ponderati che non legge nessuno.
La mia posizione è forte. Io sono un uomo di battaglia. Io non mi muovo da qui, per la salvezza di tutti. Io non mi abbandono alla cronaca, io appartengo alla storia. La tempesta sta per finire. Il bosco tornerà alla calma. Il sottobosco andava incendiato.
Dal bulbo duodenale, attraverso il piloro, fino alla bocca, una nuova ondata di vomito risale la trachea. Il corpo, istintivamente, in una palude di tremiti e sudori, cerca la posizione eretta, la direzione del bagno, la tazza del cesso.
Benito Mussolini non muove nemmeno un passo. Appena in piedi, crolla di schianto. Il tonfo sordo di un corpo esanime che incontra un pavimento ricoperto di moquette rossa. Questo l’ultimo ricordo, l’addio con cui il Duce del fascismo si accomiata dal mondo.

RISERVATISSIMO, PERSONALE DECIFRI DA S. PREGO V.S. COMUNICARE ARNALDO MUSSOLINI CHE S.E. PRESIDENTE. INDISPOSTO PIUTTOSTO SERIAMENTE STOP EGLI HA SOFFERTO NELL’ULTIMA SETTIMANA DI DISTURBI GASTRICI I QUALI DA IERI SONO CRESCIUTI DI INTENSITÀ. E RICHIEDONO ALCUNI GIORNI DI RIPOSO ASSOLUTO STOP NATURALMENTE NOTIZIA. PER ORA RISERVATA.

Telegramma del ministro dell’interno al prefetto di Milano per Arnaldo Mussolini

Nelle prime ore del pomeriggio si è sparsa la notizia che l’on. Mussolini sarebbe indisposto. Di ciò si è avuta più tardi conferma, quando al Senato l’on. Federzoni ha chiesto il rinvio dei lavori… Secondo le informazioni che si hanno, l’indisposizione da cui è stato colpito l’on. Mussolini sarebbe un’influenza sul tipo di quelle tanto comuni in questa stagione.


Corriere della Sera, 17 febbraio 1925