ItaliaOggi, 19 settembre 2020
Orsi & tori
Caro Paolo, pensi che in un’America e in un mondo come quello attuale, saresti potuto diventare Mr. Globalization, com’è il titolo del tuo libro appena uscito?Paolo Fresco, ex vice chairman e quindi un po’ più di numero due di General Electric negli anni del suo fulgore assieme al mitico Jack Welch, dopo non poche riflessioni fatte anche insieme sull’opportunità di raccontarsi anche nell’intimo, ha deciso, e il libro editato dalla Nave di Teseo è in libreria. Ha deciso di sì per quello spirito autentico, che ha caratterizzato a lungo gli Stati Uniti, che spinge chi ha avuto a restituire e Fresco lo fa non solo economicamente ma anche con un lascito, nel libro, di esperienza per i giovani.Quindi avresti potuto, nel mondo attuale, fare con GE quello che avete fatto con Welch? «Onestamente non credo. Noi siamo stati gli interpreti migliori, lo dico senza esitazione, di un concetto sano della globalizzazione. Non abbiamo mai fatto un investimento fuori dall’America senza valutare la convenienza anche del Paese che accoglieva i nostri investimenti. Un esempio per tutti il Pignone, che era stato un problema enorme per Firenze, su cui il sindaco Giorgio La Pira si era battuto per anni perché non chiudesse. Oggi è un’azienda che il mondo invidia all’Italia». Ma in America, c’è ancora questo spirito, è un Paese ancora simbolo della democrazia anche economica? «Gli Stati Uniti sono sicuramente un Paese democratico. Ma una risposta assoluta è difficile. Faccio sempre fatica a esprimere giudizi su un Paese che non è il mio, anche se mi ha dato moltissimo. Vedo più demagogia che democrazia. Questo nel mondo in generale, ma non mi sembra che gli Stati Uniti siano un’eccezione, anzi. Soprattutto io penso che l’importante in una democrazia è mantenere i paletti e i check and balance. E invece lì mi sembra che questi check stiano cedendo. Sembra che, per esempio, la guerra ai monopoli non ci sia più. Si accetta che ci siano dei monoliti che hanno il 90% del mercato. Questo è inconcepibile in un Paese che ha fatto dell’Antitrust una bandiera mondiale, non soltanto nel proprio Paese. Direi che ho dei forti dubbi sul fatto che oggi si possa qualificare come faro assoluto prima di questa presidenza, francamente. L’Antitrust è per sua natura una misura giuridica, ma di motivazione economica. È stata la risposta che gli Stati Uniti hanno dato al mondo: ci sia assolutamente, la libertà, la libera iniziativa purché però non arrivi all’abuso. In questo momento con gente che ha il 90% di un mercato o il 100% di un altro e che sono i mercati in maggior crescita, c’è un legittimo dubbio che sia democrazia».
Domanda. Credo che con Welch abbiate fatto investimenti in Cina. Oggi la Cina per la presidenza Trump è non solo il concorrente, ma il nemico...
Risposta. Abbiamo fatto degli investimenti non sostanziali per la verità. Abbiamo fatto qualche timido assaggio negli elettrodomestici bianchi, per esempio i frigoriferi. Mi ricordo che il motto di Jack e mio era: «L’unica garanzia per proteggere un investimento in Cina è di affidarsi a un azionista di maggioranza e legare le sorti del tuo investimento alle sorti dell’investimento di maggioranza». Benché non credessimo nella struttura centrale, che era sempre molto dispotica. Insomma come lo è tuttora, se vogliamo.
D. Sì, certo, ma prima c’era la fame per oltre un miliardo di persone, oggi la fame non c’è più e ci sono 250 milioni di ricchi o persone molto abbienti. Il sistema inventato da Deng Xiaoping ha funzionato. E un po’ per tutto il mondo, la globalizzazione o la delocalizzazione sono stati sicuramente utili.
R. Esatto. È proprio così. Non potrei neanche obiettare tanto perché con l’Inter noi ci stiamo giovando del capitalismo cinese. Insomma, devo riconoscere che è un fenomeno molto difficile da trattare con l’accetta, come avviene. Dobbiamo tenere molto presente che le guerre, sia pure commerciali e tecnologiche, fanno comunque vittime.
D. In Russia avevate investito?
R. Avevamo affrontato interesse ai tempi di Michail Gorbaciov per la possibilità di partecipare al grande gasdotto e abbiamo fornito le nostre turbine, i nostri compressori, quelli del Nuovo Pignone. E quindi abbiamo avuto dei rapporti commerciali molto buoni, ma non di investimento.
D. Quindi, il perimetro della tua globalizzazione che cos’era quando l’avete fatta?
R. Erano tutti i Paesi del mondo nei quali si poteva giocare al gioco della concorrenza. E laddove non c’era la possibilità di farlo, non è che dicevamo: mai più. No, aspettavamo che ci consentissero di fare ciò che sapevamo fare. Abbiamo fatto grossi sforzi di collaborazione con l’Arabia Saudita. Ne avevamo fatti con l’Iran prima che fosse sommerso dal khomeinismo e poi li abbiamo fatti massimamente in Europa.
D. Quali doti aveva Welch per fare assieme a te di GE il simbolo mondiale dell’efficienza e del successo?
R. Non sono obiettivo nel lodare o criticare Welch perché era il mio mito, era il mio nume. Però cercando di essere obiettivo, la sua forza maggiore era la leadership. Lui trascinava i suoi collaboratori. Cosa che penso di aver fatto anche io abbastanza sia in General Electric sia in Fiat. Anche se in Fiat sono stato troppo poco tempo per ottenere questo risultato. Welch ha gestito la General Electric per 20 anni. I primi 10 sono stati un po’ di rodaggio. Poi l’esplosione. Le partnership sono state negli ultimi 10 anni. Ci vuole del tempo. La sua leadership comporta che 50% e più del suo tempo fosse dedicato alla gente GE, our people, come diceva lui. Questo era un processo sistematico e molto rigoroso di valutazione di tutti gli uomini chiave: ci incontravamo due volte all’anno per discutere chi era nell’ascensore della carriera, chi era invece diciamo candidato ai rifiuti, quindi a essere eliminato, insomma c’era un convincimento profondo che il patrimonio numero uno di un’impresa fosse la sua gente. E lui è stato molto coerente con questo. L’ha fatto continuamente, ha pagato lautamente le persone, direi per molti anche troppo. Io non posso lamentarmi. Insomma, ha pagato molto bene quelli che riteneva dessero un grosso contributo.
D. E come, mai secondo te, GE è andata in crisi dopo che siete usciti voi? Lui si è trattenuto un po’ di più, giusto?
R. A furor di incentivi, per lui il consiglio ha derogato alla regola dei 65 anni che era molto rigorosa fino ad allora, ma è rimasto solo un anno in più, fino a 66 anni. Perché è andata male? Ne abbiamo discusso a lungo con Jack, una domanda che ha tormentato lui e anche me. Io soffro tuttora a guardare i risultati, anche perché soffro nella tasca, perché ho creduto nella GE e ho mantenuto gli investimenti. Jack come al solito era molto categorico: per lui è stata una sua scelta sbagliata: «Io ho sbagliato, ho scelto la persona sbagliata, è l’unico errore importante che ho fatto nella mia carriera, ma è stato un errore capitale. Aveva ragione Fresco». Si riferiva alla scelta di Jeff Immelt che non conoscevo, mentre io avevo un candidato di prim’ordine, James McNerney. Era il mio responsabile del Medio Oriente e dell’Estremo Oriente e poi, non a caso, è diventato il presidente della Boeing. Comunque devo dire che se guardo adesso a distanza di tempo, penso a una cosa ed è la prima volta che la dico. C’è stato qualcosa di più del candidato sbagliato. La struttura andava bene per Jack che l’aveva creata progressivamente, ma era difficilmente gestibile da un successore. Quasi impossibile. Io infatti sostengo che neanche un Jack rinato avrebbe fatto bene quel compito senza l’esperienza che lui aveva accumulato creandosela. Perché era diventata una società molto complessa e che basava il suo successo proprio sulla sua complessità. La teoria principale era che noi sfruttavamo la integrated diversity. Eravamo diversi, avevamo dei business poco apparentemente coesi, ma diventavano integrati dal fatto che avevamo una filosofia manageriale, di gestione, tale per cui noi traevamo da questa diversità, invece che una debolezza, una forza. Perché potevamo ottenere delle migliori esperienze nella gestione, potevamo imparare da un business all’altro, per esempio dei grossi generatori, macchinari per la produzione dell’energia elettrica, salvati quando c’era un grosso problema sulle turbine a gas dall’intervento di ingegneri dei motori degli aerei a reazione, che erano un livello superiore a quelli della Siemens, della Philips, dell’Hitachi.
D. C’era anche una formula che tu mi raccontato: la fornitura di macchinari in realtà creava un valore secondario rispetto a quello che derivava dai servizi su quelle macchine...
R. Ti ricordi molto bene. In realtà c’erano alcuni business come i motori d’aviazione, o il macchinario pesante, in cui il servizio che noi potevamo dare al cliente in continuità era talmente importante che a parità di qualità del prodotto noi riuscivamo a essere più attraenti per il minor prezzo. Ma la cosa più importante è che poi si guadagnavano un sacco di soldi. Quindi noi potevamo anche consentirci di vendere al costo o poco più del costo il prodotto.
D. Un’altra cosa che mi hai detto mi ha colpito molto, perché completa o rivela un coté sconosciuto dell’Avvocato Agnelli, che pochi credevano avesse. Mi hai detto: quando l’Avvocato non stava bene e un giorno sono andato a trovarlo, si è posto il problema se avevamo sbagliato ad allontanare Paolo Cantarella, che nella sua gestione Fiat aveva fatto come massimo la Multipla, per semplificare la cosa. L’Avvocato ricordava che il padre era stato un operaio della Fiat... Quindi un coté sconosciuto...
R. Sì, guarda, è proprio vero. Lui era più profondo di quanto voleva apparire e aveva una visione direi, non dico religiosa, ma sicuramente morale del suo ruolo. Però evitava di mostrarlo. In quel caso lì mi ricordo che appunto lui si lamentava. Lui si tormentava un po’. Però io vorrei aggiungere una cosa: come al solito lo sconfitto è quello che poi va male nei libri di storia. Povero Cantarella, non è che lui fosse tutto negativo. Alcune cose le aveva imbroccate. La formazione della Case New Holland è una cosa che lui ha portato avanti. Un’idea che abbiamo avuto insieme perché era nei deals che io proponevo per rafforzare il business, che lui ha portato avanti benissimo. Si è trovato a gestire una situazione estremamente difficile con un equivoco di base, che soprattutto all’inizio lui ha sentito come un obbligo, sulla base dell’insegnamento che aveva ricevuto dal suo capo, che indubbiamente non ero io. Il suo precedente capo era Cesare Romiti. Però c’era buona volontà e ci siamo detti: io faccio la parte strategica tu fai la parte operativa, e qui indubbiamente lui non è riuscito, però aveva un compito immane, era molto difficile. Come tutte le aziende di automobili quando le cose vanno male, vanno molto male. E questo era un momento in cui le cose andavano molto male.
D. Fino a quando hai fatto un passo fondamentale con quel contratto con General Motors, no?
R. Sì, lì devo dire che effettivamente è diventata una carta importantissima nelle mani poi di Marchionne. Guarda, io in realtà ci credevo veramente. Quando il pesce grosso vede il pesce piccolo, il pesce grosso inevitabilmente mangia il pesce piccolo, no? Questo nella mia esperienza avevo visto che era vero anche nel caso di General Electric, solo che noi normalmente eravamo il pesce grosso. Però mi dicevo sempre, se questi chiedessero una put probabilmente avrebbero ragione, ma gliel’ho detto io...
D. Quindi, Il segreto del contratto era quello di poter esercitare la put.
R. Io non avrei fatto un contratto con la General Motors, questo lo posso dire in tutta serenità, se non ci fosse stata la put. Loro mi hanno detto di no. E io ho detto: va bene, allora non si farà, noi abbiamo delle altre offerte. Era vero, avevamo altre offerte.
D. Mercedes.
R. Sì, Mercedes. Ciò che non gli avevo detto è che l’Avvocato odiava l’idea di andare con la Mercedes. Però era vero che avevamo l’offerta. E quindi alla fine loro hanno ceduto. Poi l’altra cosa che è successa è che la leadership è andata nelle mani di un uomo come Marchionne, che aveva anche lui le caratteristiche del grande negoziatore ed è stato ottenuto il massimo beneficio. Mi ricordo che diceva: insomma, se abbiamo un diritto avrà pur un valore. Ho il diritto di farlo, se volete che io vi rinunci datemi dei soldi. Era abbastanza semplice, ma ha funzionato.
D. Se dovessi dire in estrema sintesi la differenza tra le aziende italiane, la più grande azienda italiana allora, la Fiat, e le aziende GE ecc. Qual è il punto debole delle italiane?
R. Nel contesto in cui sono arrivato, c’era molta burocrazia già nella struttura di Fiat. E quindi ci voleva più tempo per cambiare. In GE applicammo la teoria che bisogna essere o il numero uno o il numero due, che è la teoria di Welch, su cui avevamo fatto tutta la ristrutturazione. Avevamo concentrato la nostra azione su 11 business principali. Avevamo abbandonato gli altri. In Fiat era più difficile applicare il criterio perché se uno guardava al mercato servito dalla Fiat automobili, esso era il mercato mondiale, non si poteva dire preserviamo soltanto l’Italia o soltanto l’Europa: bisogna avere una capacità mondiale. Era quindi estremamente difficoltoso riuscire a superare quell’ostacolo iniziale. Poi in realtà, dopo una sequenza di mosse delle quali io ho soltanto fatto il lancio iniziale, la Fiat c’è riuscita. Però devo dire che quello che io ritenevo un compito difficilissimo invece progressivamente con la successione di tre manager, diciamo pure di due nel nuovo secolo, ha consentito di porre la basi. Poi il colpo grosso è stato l’acquisto della società americana.
D. La Chrysler.
R. Esatto. È quello che ha cambiato le cose. Improvvisamente ci siamo trovati a competere tra i primi nel mercato globale. Poi è stato molto abile Marchionne nel giocarsi la carta della put, quindi a finanziare queste ulteriori mosse. È stato molto abile e fortunato nel trovarsi tra le mani questa opportunità dell’acquisto della Chrysler. Come dico nel mio libro, un conto è essere fortunati, però alla fortuna tu devi saltarle addosso come un cavallo in corsa: se non la prendi, non la prendi. Lui c’è saltato addosso.
D. Che cosa pensi di questo mondo in una profonda trasformazione, come lo vedi nel prossimo futuro, partendo dall’America...
R. C’è ora una reazione negativa della società mondiale almeno in alcuni suoi settori, per cui la globalizzazione è un male, non un fatto positivo. Forse è un problema di equivoci semantici, perché per me la globalizzazione è un fatto come è stato un fatto l’evoluzione determinata dalla rivoluzione industriale passando da un’economia agricola a un’economia industriale. Prima ancora c’è stato qualcosa del genere, tra la civiltà nomade e quella stanziale. In tutti questi casi si sono create delle grosse dislocazioni, che sono state superate col fatto che l’insieme di questi fatti contribuiva al progresso economico e culturale dell’umanità. L’umanità diventava più ricca nel suo complesso. La globalizzazione, cioè l’eliminazione delle distanze, il fatto che ci si possa trasferire da un posto all’altro e si passino idee da un posto all’altro, si possano fare consorzi mondiali, apre a un maggior numero di possibilità. Certo, se uno lo fa male o a un certo punto lascia prevalere gli egoismi come sta succedendo adesso in certe parti del mondo, allora si creano dei problemi. La globalizzazione gestita bene diventa una molla per il progresso dell’umanità. Ci sono sempre state dislocazioni dolorose e alla fine ci sono state delle classi sociali danneggiate dalla globalizzazione, proditoriamente. E lì bisogna inserire dei sistemi per mitigare i danni. È quello che forse non stiamo facendo adesso.
D. Certo sicuramente la globalizzazione, di fatto avviata da Nixon e Kissinger, comunque ha fatto benissimo alla Cina.
R. Sicuramente non si sarebbe mossa con la rapidità che ha dimostrato di avere, però la Cina ha contribuito anche con idee e innovazioni ed è stata un fattore di crescita dell’umanità. Un fatto inequivocabile è che i migliori studenti d’America sono tutti cinesi. Loro hanno il numero uno, il numero due di quasi ogni corso. I cinesi stanno sbancando. Evidentemente lavorano di più e hanno un bel cervello.
D. Tra poco ci saranno le elezioni americane che incideranno sul mondo sicuramente. Come vedi la situazione?
R. Ho avuto lunghe discussioni con gli amici americani e indubbiamente loro hanno una visione molto diversa da quella che ha la maggioranza dei commentatori italiani ed europei. Loro non è che siano entusiasti di Donald Trump però puntano il dito sul fatto che lui è il baluardo della libera concorrenza. In realtà sono anche loro attratti dall’idea America First, che secondo me è un grosso errore. Perché vuol dire rinunciare a quel ruolo di leadership mondiale che gli Stati Uniti hanno assunto per un secolo e che ha anche una serie di benefici per loro. Non puoi tenere la torta e mangiarla, come dicono gli americani. Devi pagare anche lo scotto per avere questa leadership mondiale. E invece loro vorrebbero farlo con la forza del loro peso. Trump mi sembra che dica: Io ci riesco lo stesso a fare il leader mondiale perché sono forte. Grande e grosso e se voglio vi spezzo le reni a tutti. E questo è difficile da trangugiare per gli europei, soprattutto per quelli che hanno vissuto il periodo in cui l’America voleva dire piano Marshall, libera concorrenza. Oggi invece c’è una visione sostanzialmente egoistica.
D. L’Italia ha la possibilità, dopo anche tutto quello che è successo, di salvarsi? Cosa occorrerebbe fare? Tu hai spiegato che in Fiat la cosa più negativa che hai trovato era la burocratizzazione. Se c’era nella prima azienda privata italiana figuriamoci nello stato, no?
R. È forse il problema numero uno del Paese, secondo me. Che cosa si possa fare in Italia veramente è una question of one million dollar, come dicono in America. Però secondo me bisogna lasciare libero spazio alla libera concorrenza molto di più di quanto si faccia adesso e poi appunto debellare i lacci e i lacciuoli della burocrazia, come li chiamava Carli. Quindi avere una riforma radicale. E poi puntare di più sugli onesti e punire severamente i disonesti. Questo tutti lo dicono, nessuno lo fa. Fondamentalmente ci vogliono gli uomini competenti e ancor più un vertice di governo di competenti. Non è vero che basta essere un buon politico per governare. Servono oggi conoscenze profonde. Ci vuole della gente che capisca cosa vuol dire riformare la burocrazia. Che ci sia stata dentro in questa burocrazia.
D. Sulla quarta di copertina del tuo libro, scrivi «Amare significa vedere il passato, il presente, il futuro nello stesso identico modo di un’altra persona». E io penso che tu ti riferissi a Marlene, tua moglie.
R. Non c’è dubbio.
D. Allora deduco che anche i globalizzatori hanno un cuore.
R. Io toglierei «anche». Un buon globalizzatore deve avere empatia. Se tu guardi la storia che ho cercato di narrare, io ho vinto sempre con l’empatia per la posizione dell’altra parte. L’ho capito che è una forma d’amore. L’amore è condivisione.
D. Certo. La condivisione.
R. La condivisione è quello che alimenta la vita. Che ci dà la soddisfazione. È la base per la felicità. E io in questa ultima fase ho cercato di dedicarmi a un altro concetto altrettanto importante: restituzione. Restituire ai Paesi e alle persone quello che abbiamo ottenuto dalla società. Si parte dalla società che ti ha dato di più. Vorrei fare di più. Ho messo al servizio di questo obiettivo non soltanto i miei risparmi, perché direi questo è doveroso. Sono riuscito a mettere al servizio anche la mia esperienza, perché cerco di fare cose analoghe e vedo che i risultati vengono. Se un giorno tu hai tempo, mi piacerebbe portarti a vedere Casa Marlene per esempio. Abbiamo ristrutturato una casa nella valle di Cintoia vicino al Greve e lì abbiamo creato un mondo che è rivolto ad assistere i bambini che hanno avuto la sfortuna di avere dei genitori morti o incarcerati. Il mio programma, che ho annunciato quando abbiamo inaugurato Casa Marlene, sarebbe di mettere su un ospedale, una casa per persone che siano malate di Parkinson o malattie rare e che non abbiano il sostegno di una famiglia. Chiaramente la cosa migliore è avere una famiglia che sostenga queste persone sia i vecchi sia i bambini. Ma questa Casa, in una visione poetica, da l’avallo per considerare i bambini come nipotini adottati con accanto nonni adottivi. Anche il libro, mi auguro che serva a qualcosa perché mi sono messo a nudo, forse troppo.
D. Ma non è il tuo concetto di restituire?
R. Si, lo è.