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 2020  settembre 19 Sabato calendario

La sfiducia negli economisti

Sfortunatamente, pochissime persone si fidano degli economisti abbastanza da stare ad ascoltare attentamente quello che hanno da dire. Subito prima del voto sulla Brexit, i nostri colleghi del Regno Unito cercavano disperatamente di mettere in guardia i cittadini contro i costi che avrebbe comportato uscire dall’Unione europea, ma avevano la sensazione che il loro messaggio non passasse. E avevano ragione, nessuno dava loro retta. All’inizio del 2017 YouGov realizzò nel Regno Unito un sondaggio in cui chiedeva: «Tra le seguenti categorie, chi considerate più affidabile quando parla del proprio campo di competenza?». Gli infermieri si classificavano al primo posto, con la fiducia dell’84% degli intervistati, i politici all’ultimo, con il 5% (anche se il deputato locale godeva di un po’ più di credito, con il 20%). Gli economisti erano poco al di sopra dei politici, con il 25 per cento. La fiducia nei meteorologi era due volte più alta. Nell’autunno del 2018 noi abbiamo posto le stesse domande (insieme a molte altre su varie questioni economiche, che utilizzeremo in diversi punti del libro) a diecimila persone negli Stati Uniti: anche in questo caso, appena il 25% degli intervistati si fidava della competenza degli economisti nella loro materia; solo i politici si piazzavano peggio.
Questo deficit di fiducia si rispecchia nel fatto che il consenso tra gli economisti di professione (quando c’è) spesso diverge in modo sistematico dalle opinioni dei cittadini comuni. La Booth School of Business dell’Università di Chicago chiede regolarmente a un gruppo di una quarantina di professori di economia, tutti esponenti di primo piano della disciplina, le loro opinioni su temi economici fondamentali. In questo libro vi faremo spesso riferimento come «Igm Booth» (Igm sta per Initiative on Global Markets, iniziativa sui mercati globali). Abbiamo selezionato dieci delle domande poste agli economisti dell’Igm Booth e le abbiamo sottoposte tali e quali ai partecipanti al nostro sondaggio. Nella maggior parte dei casi, le risposte degli economisti e dei nostri intervistati erano agli antipodi. Per esempio, nell’Igm Booth neanche un economista si dichiarava d’accordo con l’affermazione che «imporre nuovi dazi sull’acciaio e l’alluminio migliorerà il benessere degli americani»; nel nostro sondaggio, invece, solo poco più di un terzo degli intervistati la pensava nello stesso modo.
In generale, i partecipanti al nostro sondaggio tendevano a essere più pessimisti degli economisti. Il 40% degli economisti era d’accordo con l’affermazione che «l’afflusso di rifugiati in Germania cominciato nell’estate del 2015 porterà benefici economici al Paese nel decennio successivo», e gli altri erano per lo più incerti o non esprimevano un’opinione (solo uno era in disaccordo); inversamente, soltanto un quarto dei partecipanti al nostro sondaggio era d’accordo e il 35% era in disaccordo. Nel nostro campione, erano ancora più numerosi quelli che pensavano che l’ascesa dei robot e dell’intelligenza artificiale avrebbe portato a una disoccupazione diffusa ed erano molti meno quelli che pensavano che avrebbe creato ricchezza supplementare in misura sufficiente a compensare le persone che sarebbero state danneggiate.
(…) La scoperta fondamentale è che nel complesso l’economista accademico medio ragiona in modo molto diverso dall’americano medio. Prendendo in esame tutte e venti le domande si osserva un divario enorme, di 35 punti percentuali, fra il numero di economisti che concordano con una certa affermazione e il numero di americani medi che fanno altrettanto.
(…) Noi non pensiamo, nel modo più assoluto, che se gli economisti e i cittadini hanno idee differenti siano sempre i primi ad avere ragione. Noi economisti spesso siamo troppo avviluppati nei nostri modelli e nei nostri metodi e a volte non ricordiamo più dove finisce la scienza e dove comincia l’ideologia. Rispondiamo a domande di politica economica basandoci su ipotesi precostituite che per noi sono diventate una seconda natura, perché sono gli elementi costitutivi dei nostri modelli, ma questo non significa che siano sempre corretti. Tuttavia, abbiamo delle competenze utili che nessun altro ha: il (modesto) obiettivo di questo libro è condividere una parte di queste competenze e riaprire un dialogo sui temi più pressanti e controversi della nostra epoca.
Per farlo, dobbiamo capire cos’è che spinge la gente a diffidare di noi. Parte della risposta è che c’è in giro tanta cattiva economia. Le persone che rappresentano la categoria nel dibattito pubblico di solito non sono le stesse del campione dell’Igm Booth. Quelli che si spacciano per economisti in televisione e sulla stampa – l’economista capo della banca X o dell’azienda Y – sono, con importanti eccezioni, in primo luogo dei portavoce degli interessi economici della loro azienda, gente che spesso si sente libera di ignorare il peso dell’evidenza scientifica. Inoltre, hanno un’inclinazione, abbastanza prevedibile, verso un ottimismo di mercato a tutti i costi, che è il tratto che l’opinione pubblica associa agli economisti in generale.
(…) Un altro grande fattore che concorre a questo divario di fiducia è che gli economisti accademici non si prendono quasi mai il disturbo di spiegare i ragionamenti spesso complessi che stanno dietro alle loro conclusioni, più ricche di sfumature. Che metodo hanno usato per passare al setaccio le tante possibili interpretazioni alternative dei dati? Quali sono i puntini, spesso di ambiti diversi, che hanno dovuto collegare per arrivare alla risposta più plausibile? Quanto è plausibile questa risposta? Vale la pena usarla come guida per prendere misure concrete oppure è più opportuno aspettare e vedere?
(…) La buona economia è quella che parte da fatti problematici, fa qualche supposizione basandosi sulle cose che già conosciamo del comportamento umano e delle teorie che altrove hanno dimostrato di funzionare, usa i dati per verificare queste supposizioni, affina (o modifica radicalmente) la sua linea d’attacco basandosi sul nuovo insieme di fatti e alla fine, con un po’ di fortuna, arriva a una soluzione. Da questo punto di vista, il nostro lavoro assomiglia molto alla ricerca medica. Il bellissimo libro di Siddhartha Mukherjee sulla lotta contro il cancro, L’imperatore del male, racconta la storia di un mix di supposizioni ispirate, sperimentazioni accurate e perfezionamenti a più riprese, prima che un nuovo farmaco arrivi sul mercato. Il lavoro dell’economista assomiglia molto a questo: come succede in medicina, non abbiamo mai la certezza di aver raggiunto la verità, semplicemente ci fidiamo di una risposta abbastanza da essere disposti a usarla come guida per prendere misure concrete, consapevoli che potremmo essere costretti a cambiare opinione in futuro.
(Traduzione di Fabio Galimberti)