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 2020  settembre 19 Sabato calendario

1QQAF10 Biografia di Lorenzo Mondo raccontata da lui medesimo

1QQAF10

Il prossimo anno toccherà quota 90. È nato a Torino, è stato vicedirettore de La Stampa, ha scritto tre romanzi e alcuni libri di critica letteraria. A Lorenzo Mondo si devono due scoperte importanti: Il Taccuino segreto di Cesare Pavese e gli Appunti partigiani di Beppe Fenoglio. Mondo, insomma, sta a una certa piemontesità letteraria (quella delle Langhe) come le nostre vite all’aria che respiriamo. C’è poi il cinquantenario della morte di Cesare Pavese. Viene spontaneo cominciare questa conversazione sul più tormentato e irrisolto dei nostri scrittori. Oltretutto, da qualche settimana è stato pubblicato da Aragno Il Taccuino segreto di Pavese (curato da Francesca Belviso, con l’introduzione di Angelo d’Orsi e una testimonianza dello stesso Mondo) che molto scalpore suscitò quando proprio La Stampa ne anticipò il contenuto, all’inizio degli anni Novanta.

Tu come entrasti in possesso di quelle carte?
«Mi ero laureato su Pavese, avevo scritto un libro su di lui e frequentato per motivi inerenti alla ricerca la sorella Maria Sini. Andai da lei, mi pare nel 1962, a farle omaggio del libro. Era una donna semplice, ordinata, generosa. Apprezzò, credo, che non facessi illazioni sugli amori sfortunati del fratello e sul suicidio. Mi mise a disposizione le carte inedite dello scrittore, riposte in uno scatolone. Erano lettere, poesie, racconti e una serie di pensieri sparsi vergati su fogli a quadretti con una calligrafia spaziosa e leggibile, quella inconfondibile di Pavese. Portai tutto a casa. Fu come scoprire una miniera. Da quelle carte ricavai il materiale che mi servì per l’epistolario, che curai insieme a Italo Calvino. E quando finalmente cominciai a studiare i fogli del taccuino restai sbalordito, più che amareggiato».
Per i suoi pensieri inconfessabili?
«Confessati sulla carta, ma indiscutibilmente tenuti segreti».
Pensieri scabrosi, che contraddicevano la figura dell’antifascista, dell’uomo che era stato mandato al confino.
«Pensieri incomprensibili per un uomo come Pavese».
Mostravano l’infatuazione per la Germania.
«Era pura ammirazione per la cultura tedesca. Anche se erano indigeribili le allusioni alle atrocità naziste».
Le paragona alle atrocità della Rivoluzione Francese, dice che la storia non si fa con i guanti; aggiunge che il difetto di noi italiani è di non saper essere atroci. Spara a zero sugli intellettuali di casa che definisce "vili, litigiosi, vanitosi". Che cosa gli passava per la testa? Per come abbiamo conosciuto Pavese sembra evidente la presenza di una personalità doppia, ambigua, forse riconducibile alla sua fragilità esistenziale.
«Credo che di personalità doppia si possa discutere per altri aspetti della sua vita e del suo pensiero. Qui ci troviamo davanti a uno scrittore che si lascia solo incidentalmente catturare dalla politica. Come quando si iscrive nel 1932 al partito fascista e nel 1945 al Pci».
È un’oscillazione estrema.
«Ma diversamente da altri intellettuali non si iscrive per opportunismo. Del resto il Taccuino va inserito nel contesto dei primi anni Quaranta e poi nel cataclisma della guerra perduta, della patria invasa e martoriata. Certamente, alcune frasi furono un grave errore, che lui coltivò in segreto, per meno di due mesi. E in seguito, tra rimorso e ritrattazione, il Taccuino gli ispirò il capolavoro de La casa in collina».
Agli inizi degli anni Quaranta tu eri poco più che un bambino che viveva nelle stesse zone di Pavese.
«Sono nato a Torino nel 1931, un fratello e una sorella, una madre casalinga e un papà operaio. Sono sposato e con due figli. Con i genitori parlavo in dialetto. Si viveva in un borgo, vale a dire, in periferia, come in un grande paese. Degli anni della guerra ricordo i terribili bombardamenti del 1942, l’ululato delle sirene nella notte, la fuga precipitosa a occhi semichiusi nella cantina di casa, gli uomini incupiti e muti, le donne che recitavano il rosario. Poi sfollammo in Monferrato, nel paese dei padri e furono le razzie di tedeschi e fascisti, gli echi dei combattimenti con i partigiani, l’apprensione per mio fratello che si era sottratto alla chiamata di leva e scappava tra le colline».
Quei luoghi ai quali alludi furono anche lo sfondo di alcuni romanzi di Beppe Fenoglio. Anche su questo autore tu hai messo lo zampino, nel senso che hai scoperto e poi pubblicato i suoi appunti partigiani. Come ne sei venuto in possesso?
«Ebbi quel testo da Giancarlo Molino, un signore di buona cultura ma che si occupava di tutt’altro. Aveva rinvenuto i quattro quadernetti di appunti in una discarica in riva al Tanaro, dove era andato a pescare. Probabilmente, dopo la morte di Fenoglio, qualcuno si era liberato di quelle carte "inutili". Ancora oggi mi pare una storia incredibile».
Hai conosciuto Fenoglio?
«No, mancai l’incontro con lui per un soffio. Ricordo che gli avevo pubblicato un racconto sulla Gazzetta del popolo, dove allora lavoravo. Mi fu grato e mi invitò a raggiungerlo in alta Langa dove era convalescente, si disse, per un’affezione bronchiale. La situazione precipitò. Mi fece sapere che lo stavano trasferendo in ospedale ad Alba. Morì nel giro di pochi giorni. Era il febbraio del 1963».
La sua grandezza sarebbe stata colta solo dopo la pubblicazione dei suoi capolavori.
«Capolavori che uscirono negli anni seguenti la sua morte. Curai, tra l’altro, Il partigiano Johnny. Fui io a trovare il titolo. Fu un’edizione tormentata che, su pressione di Giulio Einaudi, curai frettolosamente. Ma quel romanzo metteva la critica davanti a un grandissimo scrittore».
Che anno era?
«Mi pare il 1968, fu una vera rivoluzione letteraria. In linea con i capovolgimenti dell’epoca. Ma molto più efficace. Del romanzo mi parlò Pietro Chiodi, traduttore di Heidegger e professore di Fenoglio al liceo di Alba. Disse che Beppe gli aveva confidato di voler scrivere un libro su un picaresco, avventuroso capobanda partigiano».
Fenoglio cambiò il modo di raccontare la Resistenza. Sei d’accordo?
«Ne sfrondò tutta la retorica. Tanto è vero che i suoi libri non furono graditi agli intellettuali del Pci. I ventitré giorni della città di Alba fu stroncato da Carlo Salinari e Davide Lajolo. Per fortuna, quando nel 1964 uscì Una questione privata, Calvino disse che era il libro che si attendeva sulla Resistenza. Quei luoghi delle Langhe, oltretutto, sembravano tutt’uno con la storia che vi si raccontava».
Pavese e Fenoglio hanno però un diverso rapporto con la loro terra.
«In che senso?».
Fenoglio l’esalta attraverso la storia e la lingua, Pavese per mezzo del mito.
«Darei per acquisito il rapporto mitico di Pavese con la propria terra e quello di Fenoglio con la storia. Ma di quest’ultimo va colto il rigore morale del suo alter ego Johnny. Un rigore attinto dagli scrittori puritani inglesi. Amava Cime tempestose e adorava Coleridge di cui tradusse La ballata del vecchio marinaio».
Pasolini disse a proposito di Pavese che era uno scrittore sopravvalutato e che alla fine il suicidio ne ha amplificato l’effettivo valore letterario.
«Non condivido, ovviamente, il giudizio. Se provassimo a mettergli accanto gli scrittori della sua generazione, e non soltanto, vedremmo che continua a cavarsela piuttosto bene. Quanto a Fenoglio, ha avuto un successo più lento e contrastato perché i suoi libri sono stati all’inizio travisati: da La malora, tacciata di tardo naturalismo ai Ventitré giorni della città di Alba, accusato di lesa Resistenza».
Che cosa pensi del suicidio di Pavese?
«Credo che ci fosse in lui un’infelicità provocata dai ripetuti scacchi in campo amoroso e forse dalla mancanza di un solido affetto che lo avrebbe aiutato a vincere il "vizio" della solitudine».
Non è un po’ riduttiva come spiegazione?
«Non sono uno psicologo. Pavese è stato un personaggio complesso, meglio: complicato. Non tralascerei perciò il travaglio dei suoi pensieri sui concetti di libertà e destino, sul significato profondo da attribuire alla vita».
Prima accennavi al tuo rapporto con la "Gazzetta del popolo". Come è stato il tuo percorso professionale?
«In pratica si è svolto quasi tutto a Torino. Ricordo una città vitale: l’università con Giovanni Getto, le importanti case editrici, i giornali, le molte librerie. Per qualche tempo lavorai alla redazione del Dizionario Enciclopedico della Utet, diretta da Giorgio Bàrberi Squarotti, questo prima di approdare all’Einaudi, lavorando con Calvino all’epistolario di Pavese. Avevo perso ogni speranza di entrare in un giornale, quando mi fu riferito che alla Gazzetta del popolo cercavano un redattore per la "terza pagina". Lavorai accanto a Lorenzo Gigli, un garbato signore d’altri tempi: scriveva i suoi articoli con la cannuccia intinta nell’inchiostro. Sette anni dopo il mitico direttore Giulio De Benedetti mi chiamò alla Stampa».
Com’era De Benedetti?
«Era considerato una leggenda nera. Poteva essere molto severo e duro. Nei miei riguardi fu incredibilmente amabile. Fu lui a volermi alla Stampa. Dopo un anno, nel 1968 fu mandato in pensione e venne sostituito da Alberto Ronchey. Poi arrivarono Arrigo Levi e Giorgio Fattori che mi promosse alla vice direzione. Ho tentato di coniugare il buon giornalismo culturale con l’attività di critico e romanziere».
Ti ritieni soddisfatto di questa scelta?
«Personalmente sì, anche se sono stato spesso visto come un cane in chiesa, ossia fuori contesto».
Nel tuo romanzo "Il passo dell’unicorno" c’è un personaggio che ricorda Gustavo Rol, il grande sensitivo che aveva affascinato anche Fellini.
«Fu proprio grazie a Fellini che la sua fama crebbe. Non c’era personaggio titolato che, capitando a Torino, non ambisse ad essere ricevuto nel suo salotto. L’ho conosciuto e frequentato. Che devo dirti? Non ho assistito a certi portenti di cui si narrava, ma quel che vidi bastò a suscitare la mia meraviglia».
Cosa ti sorprese?
«Leggeva attraverso le carte da gioco e, senza toccarle, lasciandole rovesciate, ne spostava e ricomponeva i semi. Scriveva nell’aria, con la matita, messaggi che andavano a depositarsi sul foglio bianco che qualcuno dei presenti teneva nella tasca interna della giacca».
Non potevano essere degli abili giochi di prestigio?
«Se ci fosse il trucco oppure no, nessuno l’ha mai scoperto. È certa la suggestione che Rol sapeva provocare. Ricordo che, molti anni fa, nel giorno dei morti lo andai a trovare con Guido Ceronetti, il quale si mostrò molto compreso e partecipe del modo in cui Rol ci intrattenne. A un certo punto, in sintonia con quella ricorrenza, dopo una successione di strani rumori, udimmo qualcuno congedarsi con uno scalpiccio di foglie secche. Rol annuiva sorridendo».
E voi?
«Ceronetti aderiva molto a queste cose, io più scettico. Guardai Guido con un certo stupore e disorientamento. La verità è che Rol non era un ciarlatano, non amava che qualcuno lo chiamasse "mago". Una parola che gli faceva orrore, quando la ritrovava sui giornali».
Tu che hai lavorato per tanti anni nelle redazioni come giudichi la fase attuale di grande trasformazione?
«Credo che neppure un sensitivo come Rol avrebbe potuto prevedere questa crisi. Se guardo agli anni della mia professione penso di aver ricevuto tanto, forse perfino troppo. Credevamo di essere immortali. E improvvisamente ci siamo accorti di essere fragili, esposti al vento delle novità tecnologiche. Per carità: benvenuto Internet. Ma quale forma di giornalismo produrrà? Io non lo so. Ho tagliato articoli troppo lunghi di Arturo Carlo Jemolo, ho amabilmente litigato con Alessandro Galante Garrone, ho sofferto davanti alla sufficienza con cui Norberto Bobbio parlava di Pavese e Fenoglio. Ma erano grandi, erano i nostri maestri che noi difendevamo nella pagina scritta. Ecco, questo vorrei che ci fosse ancora: una scrupolosa, indispensabile, difesa della qualità».