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 2020  settembre 19 Sabato calendario

1QQAF10 Riscoprire Mario Soldati

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La prima cosa che mi viene in mente è una targa. La si può vedere a Torino, lungo il Po, ai Murazzi. Dice che 17 marzo del 1922 un giovanissimo Mario Soldati, «esempio di coraggio e di altruismo ai giovani di ogni tempo, trasse in salvo dalle acque del fiume un coetaneo in pericolo di vita». Segue menzione della medaglia al merito civile. Ma l’immagine in sé è più vitale delle onorificenze: quel sedicenne che si tuffa, adolescente superuomo, con la stessa baldanza e l’energia e l’impudenza di cui avrebbe nutrito la sua prosa.
La seconda cosa che mi viene in mente è una considerazione che Cesare Garboli, intervistato da Nello Ajello su Repubblica nel 2003 (Soldati era morto da qualche anno), fa sullo scrittore torinese. Ajello chiede a Garboli se riconosce Soldati «nella sua leggenda di incantevole istrione». Il critico risponde: «Nella vita forse lo è stato. Ma in letteratura mai. È stato un autore talmente sincero da annettere alla sincerità perfino la finzione». E evoca l’aria «pura, limpida, alpina» di un piemontese che odora di francese e contiene in sé molte persone e molti secoli. Ajello chiede lumi. E Garboli approda a questa smagliante definizione: «Soldati è un romanziere dell’Ottocento con l’anima di uno scrittore del Novecento».
Forse è proprio questo tratto ad averlo reso, sul finire del secolo che aveva attraversato quasi per intero, un po’ fuori tempo. Ed è lo stesso tratto a rinnovarlo di continuo: come quel torrente che, in un racconto di La messa dei villeggianti, emette il suo fragore incessante. La metafora acquatica torna utile per cogliere l’energia narrativa e insieme la trasparenza della scrittura: «pacata, chiara, austera e paziente». Che racconti storie proprie o storie altrui, inventate, mantiene la stessa prodigiosa capacità di far correre avanti chi ascolta, chi legge, di renderlo impaziente, di voler sapere come va a finire. Fa il cinema, fa la televisione, con la stessa smania di divertirsi a tessere e sbrogliare trame. Gioca con il poliziesco nei Racconti del Maresciallo e forse è l’apripista involontario di un genere che, su carta e piccolo schermo, fa diventare noir la quieta provincia italiana – treni regionali, trattorie e sacrestie. E come quando in tv sul finire degli anni Cinquanta guidava gli spettatori lungo ghiotti itinerari enogastronomici, anche nelle sue storie, prima o poi, spunta un personaggio Mario, un personaggio Soldati. Più o meno camuffato, più o meno in disparte. C’è in quel bellissimo racconto giovanile che ne rivela il talento, America primo amore (1935), e c’è quasi vent’anni dopo nelle Lettere da Capri, con cui vince il Premio Strega: lì Soldati si fa in tre, si triplica in tre personaggi impastoiati nelle gelosie e nelle frustrazioni degli amori adulti. C’è l’ombra dell’autore nel protagonista del romanzo L’attore, forse uno dei più esuberanti e felici, la cui matrice si trova forse in un libro di qualche anno prima, Le due città, in cui la passione per il cinema è raccontata attraverso il pendolarismo fisico ed emotivo fra Torino e Roma. Ebbe, a differenza di L’attore, un’accoglienza meno calda, ma illumina perfettamente le due città e le due anime di Soldati. Torino operaia, donboschiana, schiva. Roma sensuale, sfasciata, bonaria e aggressiva insieme. «E Roma arrivò», scrive. «Senza annunziarsi. Senza farsi riconoscere in nessun modo, se non da orti, arbusti, capanne, case basse larghe sporche, tutte con su le terrazze invece dei tetti… sagome di pini a ombrello, cipressi, tratti di antiche mura… e un monumento con dei buchi tondi che si ricordava di aver visto in fotografia, e il treno, ecco, rallentava, ecco, era Roma».
C’è, in ogni pagina di Soldati, qualcosa che pulsa, una sorta di irrequietezza sotto la patina levigata della lingua, come di gambe impazienti nello stare ferme; e soprattutto, c’è un piacere del narrare per il gusto di narrare, che pochi autori letterari del Novecento italiano hanno vissuto ed esibito così apertamente. Vuole e deve tuffarsi, tuffarsi nella storia come si tuffò da ragazzino ai Murazzi per salvare qualcuno; così Soldati sempre si tuffa appresso ai personaggi o al personaggio- sé stesso, e lo riporta a riva senza boccheggiare, anzi, con un sorriso soddisfatto, quasi compiaciuto.
La leggenda vuole che nell’amata casa di Tellaro, in Liguria, avesse dieci tavoli da lavoro. Uno per le recensioni d’arte, uno per i racconti, uno per il romanzo in corso d’opera, il quarto per i lavori cinematografici, il quinto per la televisione… Che fosse vero o no, dà l’idea della folla di storie e di persone che abitava in lui.
In un racconto lungo, molto intenso e molto sincero, La confessione (uscito nel 1955 e scritto vent’anni prima), fa i conti con una sensibilità, o ipersensibilità, che è dono e condanna. Mette in scena un conflitto interiore, una «battaglia dell’anima» che è anche l’origine di una vocazione. La storia è quella di un tormento spirituale, un ragazzo che vuol farsi gesuita. Ma anche in quel ragazzo c’è qualcosa di Mario Soldati, nel suo sentire il richiamo sensuale del mondo, la smania che lo spinge a fare le scale di corsa, con il cuore «che gli balzava in gola». E a tuffarsi. Chi di loro – si domanda a proposito dei compagni di classe – «ha mai sentito il mondo come lo sento io ora?». Si accusa e un istante dopo si assolve. Sente la colpa, e poi la cancella con un sorriso superbo. «E dunque, dunque io sono sempre più di tutti gli altri, io farò qualche cosa di grande, e loro no».