Robinson, 19 settembre 2020
Così cane e gatto persero l’Eden per noi
Racconta un’antica leggenda babilonese che quando l’uomo e la donna furono cacciati dall’Eden avanzarono tra le schiere immobili di animali come tra le ali di un esercito di statue. Nessuno osò proferire verbo o verso. Tutti sapevano che la trasgressione dell’uomo e della donna, causando l’esilio dal giardino, li aveva condannati per sempre alla legge di natura: nascere, sopravvivere, sopraffare, essere sopraffatti, soffrire, morire. I due bipedi con la testa china, tenendosi per mano, implumi e rosei, i fianchi coperti di foglie, si avviavano verso le porte del paradiso sotto il primo cupo tramonto che vedevano con occhi mortali, e quindi ancora più bello e struggente e sfuggente perché impermanente. Fu allora, secondo la leggenda, che due quadrupedi balzarono via dalle file silenziose e si unirono a loro.
Erano il cane e il gatto. Avevano preso quella decisione senza sapere perché. Un formicolio alle zampe, un drizzarsi del pelo, uno spasmo alle viscere come quando la luna è piena li avevano spinti sulle orme di quei piedi scalzi. Li seguirono spavaldi a pochi passi di distanza. Il cane scodinzolava senza imbarazzo davanti agli sguardi severi degli altri animali allineati sull’erba acerba o sui rami fioriti. Il gatto teneva la coda gonfia e dritta come un pennacchio, conferendo una certa solennità al corteo della strana nuova famiglia che si allontanava.
Ma, ci si potrebbe domandare, che cosa avevano fatto di sbagliato l’uomo e la donna per essere cacciati così ignominiosamente dal giardino? Su questo punto le versioni divergono. Secondo una variante del mito, la loro colpa era stata rubare il frutto proibito – mela, fico, melagrana? – dell’albero della conoscenza. Mangiandolo avevano conosciuto il segreto del bene e del male e di qui il castigo. Ma come avrebbe potuto un frutto nato dalla perfezione che allora governava la natura avere in sé qualcosa di proibito? E soprattutto, le specie animali, incluso l’uomo, non possedevano già la conoscenza? Non sapevano già distinguere il bene dal male? Non avevano continua memoria di questa opposizione, che governa l’universo? E come potrebbe essere una colpa, il conoscere?
Forse la tara originaria dell’essere umano non era la conoscenza, ma, al contrario, la dimenticanza. E non veniva dal frutto dell’albero ma dall’acqua, che non può essere contenuta in nessun vaso, di un ruscello chiamato Lete, che scorreva lì sotto, al quale la donna e l’uomo avevano bevuto. Questo li aveva resi diversi dagli altri animali, che si erano guardati dall’abbeverarsene, mentre gli umani avevano trasgredito al loro istinto.
Non vi è sciagura più grave della dimenticanza. L’uomo, assaggiata quell’acqua, aveva perso nozione del suo stato. Aveva cominciato a considerarsi umano, ossia un animale che però è altro dall’animale. A poco a poco aveva dimenticato tutto ciò che le bestie ricordavano e ricordano ancora dell’abissale passato, delle ere, delle glaciazioni e dei disgeli, dei diluvi e dei terremoti, del ricorso delle comete e dello schianto dei meteoriti, dell’emersione delle terre, del loro sussultare e plasmarsi in continue metamorfosi. Aveva smarrito memoria dell’aggregarsi e coagularsi di acqua, aria, terra e fuoco in composti mutevoli, come il caglio fissa e lega il bianco latte, o in India il sacro gh?. Avevano dimenticato la mescolanza e quella separazione di cose mescolate che dagli umani è chiamata nascita.
Solo nei sogni l’uomo avrebbe avuto frammenti di visioni delle vite precedenti, dello stato di pietra, cristallo, larva, insetto, uccello nel cielo, tigre nella foresta, grande albero in Asia, pesce muto che guizza dal mare. Ma avendo perso il ricordo di tutti i linguaggi della natura, delle sue regole, delle sue maniere, dei suoi divieti, delle sue connessioni, delle sue rotte, dei suoi indirizzi segreti, e non possedendo né memoria né prescienza, non conosceva le conseguenze remote dei suoi atti. Non era e non sarebbe stato in grado di distinguere il ciclo delle reincarnazioni, traendone insegnamento. Né era o sarebbe stato in grado – salvo rare eccezioni – di profetare né di vedere ciò che sarebbe stato. Oltre al passato aveva dimenticato anche il futuro. Dotata di postura eretta e di pollice opponibile, questa scimmia nuda era condannata a un’illusoria e miope attività di pianificazione e previsione, che serviva solo i propri aneliti momentanei e individuali, scissi dall’unico grande palpito di desiderio cui tende il ciclo della natura, in cui ogni cosa muore d’amore per l’altra.
Ma il cane e il gatto avevano adottato l’uomo, anche se lui ancora oggi pensa l’inverso e non comprende perché, ogni volta che guarda nei loro occhi, trae una sensazione di pace. – Ricordi? – dice lo sguardo, – noi eravamo con te quel giorno. Nei secoli veglieremo su di te, ti ricorderemo il tuo lignaggio animale. Ci farai dio egizio, santo levriero, esile sacerdotessa tigrata. I tuoi profeti si taglieranno la veste per non disturbare il nostro sonno. Abiteremo i tuoi templi e i tuoi fori, saremo compagni di maghi e taumaturghi, dormiremo tra i tuoi libri e i tuoi alambicchi, perpetueremo con te la misericordiosa superfluità del gioco. Mendicheremo con te il pane agli angoli delle strade, la nostra effigie campeggerà sui vessilli dei tuoi re e nelle insegne delle locande del popolo. Dalle grandi sale dei tuoi castelli agli angoli più bui dei focolari delle tue capanne ci sentirai ansimare e fare le fusa, vedrai il nostro sguardo seguirti.