Robinson, 19 settembre 2020
Quell’animalista di Plutarco
Anche la cultura antica, come quella contemporanea, conobbe un vivace dibattito sul tema dei diritti degli animali: in particolare (per dirla con le categorie proprie dei pensatori greci e romani) si discusse sulla possibilità che essi possedessero o meno una qualche forma di “razionalità”. Dunque, da un lato stavano i filosofi stoici, i quali erano decisamente ostili all’idea che gli animali fossero dotati di ragione; e di conseguenza, non accettavano il principio che uomini e bestie potessero essere legati fra loro da una qualsiasi forma di “diritto”. Lo sguardo degli stoici era talmente centrato sull’uomo, unico essere provvisto del dono della ragione, che il loro umanesimo finiva per trasformarsi in una forma di razzismo animale, o meglio di “specismo”. Come diceva Cicerone, «non vi è alcun rapporto di diritto fra uomini e bestie. In modo eccellente Crisippo ha affermato... che gli uomini possono servirsi degli animali per la loro utilità senza commettere alcuna ingiustizia». A parere degli stoici insomma gli animali esistevano esclusivamente per il vantaggio degli uomini. Sia detto per inciso ma Crisippo (III a.C.), il successore di Cleante alla testa della scuola stoica, è il filosofo al quale si attribuiva il seguente detto: «al porco gli dei hanno dato l’"anima” a guisa di sale, perché la sua carne non marcisse».
Sul versante opposto stavano invece i difensori degli animali, in particolare Plutarco (I d.C.) e Porfirio (III d.C.). Le loro idee derivavano in parte da quelle di Teofrasto, il discepolo e successore di Aristotele, mescolate però con concezioni mistiche di tipo orfico o pitagorico. Quali erano la loro posizioni? Sostanzialmente queste: gli animali sono dotati di ragione, e in varia misura anche di linguaggio; fra uomini e animali sussiste una forma di “parentela” – dunque la distanza che li separa non è affatto abissale, come sostenevano gli stoici – mentre la virtù tipicamente umana della philanthropia, ossia la mitezza, deve spingerci ad usare “giustizia” anche nei loro confronti. Ma che dire dei pensatori giudaici? Nella Bibbia essi trovavano l’esplicita affermazione dell’inferiorità degli animali. «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» afferma il Dio della Genesi «e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Di conseguenza, chi voleva mantener fede al testo sacro non poteva certo riconoscere dei “diritti” ad esseri che Dio stesso aveva posto al servizio degli uomini. In un dialogo dal titolo Sugli animali, Filone (I a.C. – I d.C.), grande commentatore della Bibbia, affida al personaggio di Alessandro il compito di rappresentare le idee di quei filosofi che anche a questi esseri volevano riconoscere la facoltà della ragione. L’interlocutore sostiene dunque che gli uccelli non solo cinguettano melodiosamente, ma addirittura articolano “parole”, possiedono insomma una forma di linguaggio. Filone però non è di questo parere. Al massimo, controbatte, si può dire che gli uccelli emettano dei “suoni”, alla maniera degli strumenti musicali. Per poi concludere in questo modo: «smettiamola dunque di criticare la natura e di commettere sacrilegio. Elevare gli animali al livello degli uomini e garantire così l’uguaglianza a chi uguale non è, costituisce la peggiore delle ingiustizie». Il rovesciamento è polare, si commette “ingiustizia” non quando si disconoscono i “diritti” degli animali, ma quando li si afferma.
Per quello che riguarda poi il pensiero cristiano, se prendiamo Agostino come suo rappresentante la situazione si presenta abbastanza sconfortante. Basterebbe ricordare quel passo in cui, per rispondere a chi considerava la sofferenza del parto comune anche agli animali, egli affermava: «non te lo hanno detto gli animali se il loro gemito [al momento del parto] sia un canto o un lamento... Chi può sapere se i moti e i suoni che gli animali manifestano in questa occasione – essi che sono muti, e non possono perciò rivelare ciò che accade dentro di loro – non solo non esprimano dolore, ma addirittura una qualche forma di piacere?». Agostino intendeva qui contrastare quei pensatori che agli animali riconoscevano, se non la capacità di comunicare contenuti razionali, almeno quella di esprimere le proprie emozioni o le proprie passioni. Il poeta Lucrezio, ad esempio, era stato uno di loro. Ma il vescovo di Ippona non era disposto a concedere neppure questo. In ogni caso, chiunque abbia visto partorire almeno la propria gatta potrà facilmente giudicare della insensibilità di Agostino su questo terreno.
In questo variegato panorama, però, a spiccare per originalità, e anche per bizzarria, è un retore di Palestrina di nome Eliano (II- III d.C.). Costui propugnò con foga la tesi che gli animali disponessero di virtù quali la saggezza, la pazienza, la temperanza, e insomma si mostrò assolutamente certo del fatto che essi avessero qualità intellettuali e morali non solo pari, ma addirittura superiori a quelle degli uomini. Lo fece da retore, richiamando paradigmi mitici a cui gli animali, con le loro abilità e virtù, potevano essere assimilati: ad esempio, la femmina del merlo marino avrebbe eguagliato in devozione coniugale Alcesti (che dette la sua vita in cambio di quella di suo marito Admeto) ed Evadne (che volle morire sullo stesso rogo su cui bruciò il marito Capaneo); per non dire della cura con cui gli animali rifuggirebbero dall’incesto, cosa che notoriamente non riuscì ad Edipo; e via di questo passo. In particolare Eliano cercò anche di dimostrare che i suoni emessi dai suoi beniamini potevano avere un vero e proprio valore linguistico, ossia che erano strumenti di comunicazione. Scriveva infatti: «La natura ha dotato gli animali di un’immensa varietà di voci e di linguaggi, proprio come ha fatto con gli uomini. Lo Scita parla infatti in modo diverso dall’Indiano, il parlare dei Greci è diverso da quello dei Romani. Così avviene anche con gli animali, in cui ciascuno emette il tono e il suono che risulta essere più naturale per la propria lingua: l’uno infatti ruggisce, l’altro muggisce, dell’uno è proprio il nitrito, dell’altro il raglio; dell’altro ancora il belato o il fare “meeeh!” …». Il ragionamento è sofistico, naturalmente, perché Eliano non si preoccupa di argomentare riguardo a quella che – già a parere di Aristotele – costituisce la differenza fondamentale fra le emissioni sonore umane e quelle animali: le prime sono dotate di “articolazione”, si strutturano cioè in parole capaci di organizzarsi in discorso; le voci degli animali invece non godono di questa possibilità. Ma Eliano si lascia comunque apprezzare per la sua generosa disposizione verso questi nostri (sfortunati) compagni di vita sul pianeta.