la Repubblica, 19 settembre 2020
Il concerto dei Rolling Stones a Roma nel 1967
Roma, Palazzo Dello Sport, 6 aprile 1967. Era come se un fratello poco più grande, ma molto più smaliziato, ti mostrasse il paradiso e ti dicesse: è qui, non devi far altro che entrare anche tu. Il fratello maggiore, bello e peccaminoso, era Mick Jagger, si agitava, cantava come un ossesso e ci diceva che tutto quello che noi ragazzi provavamo nella nostra confusa e tormentata adolescenza era giusto. Non c’era nulla di cui vergognarsi. Anzi, il nostro disagio era il cibo della rivoluzione. Divertitevi, diceva, liberatevi. Dovete solo varcare i cancelli di un palazzo dello sport. E noi siamo entrati, accalorati, eccitati, chissà quanti eravamo, allora si contava poco o per niente, quattro/cinquemila chissà, ma era la prima volta che in Italia tanta gente si radunava per un concerto.
Era un giovedì, il 6 aprile del 1967, e i Rolling Stones tennero due concerti, uno il pomeriggio e l’altro la sera, allora andava così. In quel momento nessuno di noi aveva la percezione esatta di quello che stava accadendo, mai potevamo immaginare che stavamo per assistere al big bang, alla madre di tutti concerti rock in Italia. Dentro era il caos, nella acustica rimbombante del palazzetto quelle note rock incendiavano l’anima. Batteria, colpi di cassa, suoni elettrici, urla, tutto quello che avevamo già imparato a sognare nei dischi e che si materializzava lì dal vivo davanti a noi. Mick Jagger al tempo era un fauno delirante, felice, un messaggero del diavolo arrivato direttamente dal pianeta “freedom” per tentare noi ragazzini, si muoveva con mosse femminee, la lingua di fuori, la faccia oltraggiosa e cantava I can’t get no satisfaction senza alcun timore reverenziale. Sapeva di aver ragione, sapeva che la storia in quel momento era tutta dalla sua parte e lo comunicava con un ardore inimmaginabile.
A rileggerli oggi i pezzi dei cronisti del tempo sono gioielli di costume. L’inviato del Corriere praticamente non guarda verso il palco, della musica si parla solo fuggevolmente come un fastidioso rumore di fondo, nota servette e soldatini in libera uscita (di giovedì pomeriggio) nota anche la presenza di alcuni capelloni inspiegabilmente invasati. Dunque i concerti li si guadava verso la platea, notando nel pomeriggio ragazzini in delirio, e la sera qualche vip curioso, tra cui Gina Lollobrigida e Vittorio Gassman. E invece tutto quello che davvero contava era lì sul palco. I due concerti furono praticamente identici. Al pomeriggio iniziarono con The Last time e finirono con Satisfaction, la sera lasciarono il finale a Let’s spend the night together. Solo otto pezzi a concerto, praticamente niente considerando gli standard attuali, quasi una truffa per le mille lire che costava la galleria e le tremila della platea. Solo otto pezzi, poco più di un battito d’ali, ma sufficiente a lasciare un segno indelebile in quelli che c’erano. Poteva capitare, capitava, che un concerto potesse diventare di fatto un’iniziazione. Per molti ragazzi lo era. Si entrava in un modo e si usciva trasformati. Perlomeno con una consapevolezza in più, ovvero che ci fosse una musica capace di aprire la mente, di descrivere perfettamente l’energia che in quegli anni stava ribaltando il mondo. Le chitarre degli Stones, allora erano Brian Jones e Keith Richards, erano una scossa elettrica, il canto di Jagger attraversava l’aria come un tortuoso e sussultorio terremoto dei sensi.
Le parole arrivavano come schiaffi seducenti, sfrontati proponimenti, segni di arrogante ma geniale incoscienza dell’età adolescenziale. Il fatto è che per la prima volta nella storia gli adolescenti avevano un motivo per essere protagonisti, sapevano perfettamente di avere in mano il potere di cambiare la storia, una presunzione inaccettabile per le istituzioni di allora, ma non per questo meno autentica. Jagger poi era bello, tutti gli Stones lo erano in quel loro modo deviato e traviato. Erano il ritratto dell’innocenza giovanile gettata in pasto alla perversione del tempo. Ma non era una bellezza casuale, individuale, era parte di quella nuova bellezza che circolava come merce dorata nella rivolta giovanile, dove anche i capelli lunghi rappresentavano un segno pittorico di libertà. Ma sopratutto in quei concerti si celebrava un rito del tutto nuovo, sembrava che non ci fosse distinzione tra palco e platea, era un sabba comune, condiviso, le facce degli Stones spudorati e trasgressivi erano le stesse facce dei giovani che stavano sotto il palco, immortalate nel candore di guance arrossate dagli ormoni della rivoluzione.