la Repubblica, 19 settembre 2020
In morte di Enzo Golino
Nell’autoritratto che introduce Madame Storia & Lady Scrittura, un gran volume miscellaneo di oltre mille pagine uscito nel 2011 per Le Lettere, Enzo Golino – morto ieri a Roma, a 88 anni – si presenta, con il consueto understatement, come una sorta di “lettore a vita” ma tutti abbiamo sempre saputo che era molto di più, sommando in sé il critico militante, il sociologo attento ai mutamenti del mondo, il giornalista culturale sempre pronto a cogliere un elemento nuovo, capace di smuovere o rimuovere la tanta polvere che spesso accompagna certi discorsi.
Nato a Napoli nel 1932, dopo gli studi Golino aveva collaborato alla rivista di Francesco Compagna, Nord e Sud, ma anche a Tempo presente di Silone, poi nel 1961 si era trasferito a Roma dove, l’anno dopo, era stato assunto in Rai: vi avrebbe lavorato fino al 1975, occupandosi di spettacoli e di cultura.
Fu lui, lo ricordò in una intervista, ad avere l’idea di una storia sceneggiata della lingua italiana. Ne vennero fuori cinque puntate, trasmesse nel 1974, con il titolo Parlare, leggere, scrivere. Gli autori erano Tullio De Mauro e Umberto Eco. La Rai era ancora in regime di monopolio. A novembre del ’75 Eugenio Scalfari lo chiamò per dirigere le pagine culturali di questo giornale, che andò in edicola per la prima volta il 14 gennaio del ’76. Mi è capitato proprio qualche giorno fa di ricordare come in quel primo numero ci fosse la recensione di Enzo Forcella al volume di Alberto Asor Rosa dedicato alla cultura nel quadro della Storia d’Italia Einaudi. Al centro figurava una recensione di Giuliano Briganti a una mostra di Alberto Burri e di spalla un’intervista di Alberto Arbasino a Bernardo Bertolucci per il suo Novecento.
Era, quella pagina, un segno esplicito dell’eleganza culturale di Enzo, che all’eleganza, anche personale, teneva molto. Fin dal novembre del ’75 si era assicurato la collaborazione di Beniamino Placido. «Abbiamo un americanista», aveva detto a Scalfari.
Poi Beniamino si era rivelato un jolly, che sembrava nato per scrivere sui giornali. Nell’estate del ’77 anch’io entrai in quella redazione, ma il caso volle che non appena vi entrai, Golino, con il quale già collaboravo da un anno circa, venne chiamato da Piero Ottone a dirigere la sezione cultura del Corriere della sera.
Quando qualche mese dopo lo andai a trovare a Milano, Golino mi raccontò che con Scalfari c’era stata una colazione non senza imbarazzo. Scalfari considerava quell’uscita come una sorta di tradimento. Poi il Corriere andò incontro alle vicende legate alla P2 e tutto il resto. Golino tornò a Roma e col tempo tornò anche all’ Espresso come vicedirettore e a Repubblica come collaboratore.
Negli ultimi anni ci siamo divisi sul Venerdì lo spazio di una rubrica: una settimana usciva lui, che si occupava di poesia, e una io con la testata I libri di ieri. Ho ancora nell’orecchio le sue telefonate. «Ma questa volta tocca a me o a te?».
Alla poesia si era sempre dedicato con passione e gli piaceva anche frequentare le voci nuove che via via vi si affacciavano. Se però mi chiedessero di fare un solo nome per la poesia del Novecento, farei quello di Montale, aveva confessato una volta. Ma era molto attento anche alla, diciamo così, produzione e diffusione della poesia, agli editori che nonostante tutto riuscivano a portare la poesia vecchia e nuova nelle librerie, come Scheiwiller, come Crocetti. «Sarà anche vero che quella cosa chiamata poesia non è morta», concludeva accennando ad una esistenza clandestina.
La letteratura veniva analizzata in sé, ma anche nei suoi effetti, come recita il titolo di un suo libro del ’76: Letteratura e classi sociali. Lo prova la sua lunga attenzione per Pasolini, la sua scrittura e le sue denunce. Proprio per questo mal sopportava il “pasolinificio” che aveva fatto dello scrittore friulano un’icona buona per tutti gli usi. Molto attento al linguaggio e ai suoi capricci (vedi un suo frizzante articolo su Trapattoni che parla del giocatore tedesco Strunz, “Trap e Strunz”, appunto) o, su un piano più vasto, lo studio Parola di Duce che indagava il linguaggio totalitario del regime fascista e poi anche di quello nazista. «L’intero sistema dell’educazione nazionale è stato uno dei più bersagliati dal linguaggio imposto dal pensiero unico del regime fascista e del regime nazista», aveva sintetizzato. Il Duce si esprimeva anche con il corpo, Hitler urlava.
Da critico militante gli piaceva interagire con gli scrittori che di volta in volta prendeva in esame. Nell’agosto del 1988 cominciò sul mensile Millelibri una rubrica intitolata Sottotiro, che in sostanza prendeva di mira uno scrittore, chiedendogli poi, se voleva, di replicare alle critiche. Fatto inconsueto e non tutti accolsero bene la proposta. Comunque le critiche di Sottotiro diventarono un libro nel 2002 per Manni, poi ripreso da Bompiani.
Anche lo strumento dell’intervista fu usato da Golino per indagare il pensiero degli scrittori in merito a temi di interesse non solo letterario (vedi Dentro la letteratura uscito nel 2011, ma con materiale molto più antico).
A proposito della natura, per esempio, Alberto Moravia gli dice che «il romanzo moderno non sa che farsene», mentre Luigi Malerba ha scelto due diverse realtà rurali, quella parmense e quella laziale, per i racconti della Scoperta dell’alfabeto e per il romanzo Salto mortale. La scuola, il dialetto, la storia, gli operai... la letteratura consente di tastare il polso in senso lato al mondo che sta rapidamente cambiando e il critico, per così dire, sente il polso dello scrittore e raccoglie materiali per il futuro lettore. Gli operai escono di scena, il dialetto pian piano scompare o resta come citazione, talvolta esibita. Pasolini vede nel ’68 l’«ultimo sprazzo di vitalità».
Conversatore amabile e affabile, Enzo Golino aveva un bel sorriso ed è proprio il suo sorriso a restarmi in mente come cifra ultima di una vita spesa benissimo, in senso umano e culturale. Le sue opere sono state diverse volte ristampate e, credo, lo saranno ancora.