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 2020  settembre 18 Venerdì calendario

Storia della 24 Ore di Le Mans

Pensi alla 24 Ore di Le Mans e la prima cosa che ti viene in mente è Steve McQueen, nella sua bella tuta bianca, su una Porsche con la livrea arancioceleste della Gulf. Hai quindi subito la percezione che si parli di un mito, ma ti passano davanti uno che Le Mans non l’ha mai corsa e un binomio, Porsche-Gulf, che non l’ha mai vinta. Cioè la Porsche sì, ovviamente, e anche più di qualsiasi altro costruttore: ha trionfato ben 19 volte, ma mai col marchio Gulf. E allora cominci a realizzare una cosa, spiegata benissimo da Emanuele Pirro. Che i vincitori, le auto, le squadre sono importanti sì, ma «la vera, grande, unica protagonista è lei, la gara. È la 24 Ore». Semplicemente perché è una leggenda che basta a se stessa: gli uomini e le macchine sfrecciano via e si confondono nella memoria, lei resta. E domani si corre per la 88ª volta.


Meraviglia e orrore
Pirro è uno dei nobili della Sarthe, perché ci ha vinto 5 volte, così che quest’anno lo hanno nominato Grand Maréchal, gran cerimoniere: sarà al volante dell’auto apripista. «La 24 Ore - dice - è un mito scritto con il sudore, con la benzina e con il sangue». Il suo fascino è un misto di meraviglia e di orrore. E infatti quando si tratta di provare a raccontarla attraverso i ricordi, Pirro ne tira fuori due. Tra loro opposti. «La mia prima vittoria (nel 2000; n.d.r.), perché è come il primo bacio. Ma anche il mio debutto, nel 1981: nella prima ora di gara ho visto due incidenti in cui hanno perso la vita due persone, un commissario e Jean-Louis Lafosse». Del resto Le Mans è la gara in cui è accaduto l’incidente più grave di tutta la storia dei motori, nel 1955. La Mercedes di Pierre Levegh che urta la Austin di Lance Macklin, decolla, rimbalza sulla tribuna centrale, falcia centinaia di spettatori. Ne moriranno 83, più lo stesso Levegh. I feriti saranno oltre 120. Con la gara che è andata avanti, fino alla vittoria di Mike Hawthorn. Lo shock fu tale che la Mercedes lasciò le corse. Sarebbe tornata dopo più di 30 anni.


Pescarolo e Ickx
Ma per fortuna c’è anche tanta meraviglia, a Le Mans. Eroismi e imprese, genialità e guasconate. Lo stesso Levegh prima di morirci aveva tentato di fare tutto da solo. Nel 1952 ha provato a correrla senza mai staccarsi dal volante. Alla 24a ora era in testa, ma ha commesso un errore e la vittoria gli è sfuggita. Appena due anni prima avevano vinto padre e figlio: Louis e Jean-Louis Rosier. Col padre al volante per 23 ore 15’ e 17”, il figliolo si è fatto solo 2 giri, per dar tempo a papà di mangiare un panino. Ce ne sono a decine, di immagini così. C’è Henri Pescarolo che nel 1968 guida nella notte sotto un’acqua che dio la manda, senza un tergicristallo. E c’è Jacky Ickx che attraversa la pista di passo alla partenza del 1969. Fino ad allora il via era con le auto parcheggiate a lisca di pesce di fronte ai box. I piloti le raggiungevano di corsa (le Porsche hanno ancora tutte la messa in moto a sinistra del volante, perché a Le Mans la mano destra doveva andare veloce sul cambio...). Ovvio che mettere le cinture diventava un inghippo, in barba alla sicurezza. E allora Ickx decise di non correre e di arrivare alla sua Ford camminando, per protesta. Tanto poi ha vinto lo stesso. Dall’anno dopo la partenza è lanciata.


McQueen e Newman
C’era anche Steve McQueen in quella prima edizione senza lisca di pesce, nel 1970. Dopo che aveva già corso a Sebring, avrebbe dovuto farlo anche a Le Mans, con Jackie Stewart. E che storia, sarebbe stata: il campione della F. 1, coi suoi capelli lunghi e i basettoni, e l’istrione maledetto che di sé diceva: «Non so se sono un attore che corre o un pilota che recita». Finì che McQueen andò in pista sì, ma fuori concorso, su una Porsche allestita per le riprese di «Le Mans». Il film fu un flop, ma ha lasciato nell’immaginario di tutti l’iconografia del mito. Di un’epopea che evidentemente piace al cinema. E agli attori, perché poi Le Mans McQueen non l’ha mai corsa, ma Paul Newman sì. E ci è anche arrivato secondo, nel 1979, su Porsche 935, dietro a Don Whittington che nel bel mezzo della gara urinò sul suo turbo per raffreddarlo. Mitologia pura. Come quella raccontata un anno fa da James Mangold in Le Mans ’66: la sfida tra Ferrari e Ford, all’indomani del gran rifiuto di Enzo Ferrari che non aveva voluto vendere l’azienda a Henry Ford.


La nostra Woodstock
Ce ne sarebbero altre tonnellate di storie così da raccontare su uno schermo. Quella di Tom Kristensen, il re de La Sarthe che ci ha vinto 9 volte, più di chiunque altro. Di quando, nel 1988, Roger Dorchy sulla WM P88 si è fatto le Hunaudières a 405 km/h. E allora l’anno dopo su quel rettifilo han messo un paio di chicane, ché era meglio rallentare un po’. Ugualmente nel 2010 l’Audi vincente in 24 ore si è fatta 5.410 km. «Più di molti campionati di F.1», fa notare Pirro. E nel 2017, con la sua Toyota, Kamui Kobayashi si è sparato il giro (13,6 km) in 3’14”791, alla media di 251,882 km/h. In uno degli ultimi atti di un’epica divisa tra tante guerre, ognuna con la sua Casa dominatrice: la Bentley e l’Alfa, e poi la Jaguar, la Ferrari e la Ford, la Matra-Simca, quindi quasi un trentennio di Germania, Porsche e Audi. Adesso c’è la Toyota, da sola. Nel 2018 e poi ancora l’anno scorso ci ha vinto Fernando Alonso, nel suo inseguimento alla Tripla Corona: Le Mans, come la F.1, per lui è una missione compiuta. Gli manca Indianapolis. Intanto però la Toyota è rimasta senza di lui, e senza avversari. Così che sabato sarà una questione tra due sue auto, la n.7 e la n.8. Ma non importa. Il problema semmai è che non ci sarà il pubblico. «Peccato – dice le Grand Marèchal Pirro – perché Le Mans è la nostra Woodstock. Vengono in 250.000 e quasi nessuno fa il tifo per un pilota o per una macchina». Arrivano come per una festa. E tifano solo per la 24 Ore di Le Mans.