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 2020  settembre 18 Venerdì calendario

QQAN20 Anticipazione di «La vita salvata» di Raffaele La Capria

QQAN20

Esce martedì «La vita salvata» (Mondadori) in cui Raffaele La Capria si racconta in una conversazione con Giovanna Stanzione



«Le manca Napoli?».
«No, non rimpiango di essere venuto a vivere a Roma. Anche se era molto dolce vivere lì. Ha quel paesaggio bellissimo. Il Vesuvio che sorge nel mezzo, come un monte Fuji mediterraneo. Napoli mi dava tanto, certo. Qualcosa che Roma non mi potrà mai dare».
«Che cosa?».
«Il mio mare». Mi guarda. «Credo lei possa capirlo. Ho sempre amato il mare in tutte le sue ore. Il mar Me-di-ter-ra-ne-o», scandisce. «È stato lui a dirmi un giorno veramente chi ero, sa? Tornavo da un viaggio in nave oltreoceano. L’ho guardato a fondo dal ponte e dentro di lui c’era la mia storia. Mi pareva di vederla risalire a ritroso la storia di tutte le generazioni che mi avevano preceduto e che erano confluite in me. Quel giorno, grazie al Mediterraneo, io seppi di essere egizio greco fenicio e vennero a galla in un istante, come per una folgorazione, tutti i miti depositati nel mio inconscio e in quello delle civiltà cui appartengo; seppi i nomi di tutti gli dei che lo abitavano; avvertii, come me lo mostrava lui, il senso della forma, del limite e del bello».
«Non mi sento un vecchio» mi aveva detto un giorno. «Mi sento più un adolescente invecchiato di colpo. Sempre figlio, sebbene più volte padre».
«Da cosa dipende?» gli avevo chiesto.
«Non saprei. Dal gene di Napoli, forse. O forse da un modo di vivere più leggero».
«Dice sempre di avere un approccio leggero all’esistenza, ma poi nei suoi libri scava, fruga, penetra e non si risparmia».
«Si può essere leggeri pure essendo profondi, sa? “Fa’ che il tuo pensiero sia profondamente superficiale” diceva José Bergamín. L’importante è conservare una visione lieve del mondo. Quella che, dopo ogni immersione, ti spinge a guardare in alto e a cercare in tutti i modi di tornare a galleggiare in superficie».
«Lei si è lesionato un timpano perché da ragazzo si è immerso troppo in profondità, e stava per morire».
«È proprio quello che intendevo, non dimenticarsi mai di tornare a vedere la luce in alto; poi il resto, le sbracciate, le spinte, il bisogno d’aria, vengono da sé. Ma la visione leggera del mondo, quella devi avercela in petto».

«Quando ha iniziato a leggere romanzi?».
«Molto giovane. Ero un ragazzo solitario che passava le giornate a leggere davanti alla finestra, con il mare d’inverno che fuori tempestava e il gatto che faceva le fusa sulle gambe. È a lui che penso quando voglio parlare della letteratura allo stato puro».
«A lui?».
«A quel ragazzo solitario, che aveva iniziato leggendo Salgari e Stevenson e poi è andato avanti, fino a Dostoevskij, fino a Joyce. Era un lettore inesperto, certo, e parecchio sprovveduto, ma mai più, una volta diventato uomo, avrebbe ritrovato quella sua antica maniera di leggere così totalizzante. È lui che, istintivamente, come si fiuta il sentiero giusto in un bosco, ha scoperto cos’è la letteratura».

«E cos’è la letteratura?»
Ride. «È una cosa che si impara da soli, con il tempo, nessuno può insegnarcelo. Non creda a chi va predicando il contrario. Ma posso dirle che di letteratura ne sapeva più quel ragazzo lì di tutti gli altri: dei grandi critici, dei lettori indottrinati, perfino del vecchio scrittore che sono diventato. Ne ho fatte di letture e riletture negli anni seguenti: dotte, critiche, analitiche. Nessuna mai è stata paragonabile a quelle prime davanti alla finestra. Quelle letture coinvolgevano non solo la mia intelligenza, ma tutto il mio organismo, dotato di sensi ed esperienza. Andavano scavando, una a una, impronte indelebili dentro di me. E, con una forza misteriosa e sconosciuta, scuotevano a strattoni la mia esistenza dal suo torpore».

«Ci sono diversi modi di fare un tuffo a seconda di come ti metti di fronte alla tavola. Se la tavola è questa – la mano si apre in orizzontale – allora puoi fare il tuffo in avanti oppure puoi fare il tuffo ritornato, un saltino indietro e poi così». Lo mima con l’altra mano. «Ancora puoi fare il tuffo all’indietro, il tuffo carpiato, ossia con il dorso curvo come una carpa, le gambe tese».
«Era bravo a tuffarsi?».
«Io ero un campione di tuffi. Fin da ragazzo». Ha un sorriso ironico, un guizzo nello sguardo. «Erano belli i tempi in cui in un tuffo potevo convogliare tutto quanto. Tutto il mio bisogno di essere guardato e lodato, tutta la voglia di dimostrare a me, e solo a me, chi fossi e cosa fossi capace di fare. In una parola, tutto il mio bruciante, ipertrofico narcisismo». Si mette a ridere. «E però facevo certi ruzzoloni! Ma mentre prima mi buttavo a mare e come andavo andavo, dopo ho iniziato a vederci come un’arte nei tuffi e ho imparato le figure esistenti. Ho preso un maestro, ho studiato la tecnica e, a poco a poco, ho iniziato a fare un salto mortale, un salto mortale e mezzo, due salti...».
«Ha scritto un saggio sulla letteratura e i salti mortali».
Annuisce. «Alla fine avevo acquisito una certa dimestichezza in entrambe le discipline, diciamo così. Peraltro, ho sempre sospettato che la mia idea della letteratura si sia sviluppata quando facevo le gare di tuffi per il circolo nautico».
«Cos’hanno in comune le due cose?».
«Molto hanno in comune. Il tuffo è letteratura dalla partenza in aria all’entrata in acqua. E la letteratura risponde alle stesse leggi che regolano i tuffi».
«Quali, per esempio?».
«La legge di gravità».
«La legge di gravità?».
«Oh sì. Uno scrittore deve sempre tenere d’occhio la legge di gravità, altrimenti è impossibile misurare bene le forze e la sua opera non riesce (...)».