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 2020  settembre 18 Venerdì calendario

22QQAN40 C’era una volta l’Angloamerica

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Quando ha perso il posto di direttore della New York Revue of Books per aver pubblicato un saggio di un uomo assolto da accuse di molestie sessuali, Ian Buruma ha preso un periodo di riflessione rispetto a un mondo che gli sembrava dominato dall’emotività e dal conformismo. L’intellettuale olandese ha riflettuto a lungo sulla differenza dell’approccio alle questioni etiche, sociali e religiose tra l’Europa e il paese che l’ha accolto, individuando nella politica il motore di ogni altra attività. Buruma è rimasto colpito in particolare dal rapporto tra gli Usa e il Regno Unito, iniziato con una guerra per l’indipendenza e poi evoluto in una relazione privilegiata.
Ne è scaturito The Churchill Complex, un libro prezioso e affascinante, focalizzato sul periodo tra la fine della guerra e oggi. Sin dalla copertina, che mostra nella parte superiore Churchill insieme a Roosevelt, e in quella inferiore Trump con Boris Johnson, Buruma raffigura un quadro di allarmante decadenza, ritenendo che il complesso di Churchill sia quello che aggredisce qualunque leader voglia paragonarsi a una personalità talmente carismatica da invocare «sangue, fatica, lacrime e sudore» nel discorso inaugurale come primo ministro, quando chiunque altro avrebbe offerto promesse e illusioni. Cita come esempio opposto il suo predecessore Neville Chamberlain, che nel tentativo di realizzare un appeasement con Hitler aveva trovato un alleato nell’ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy. Fu Churchill a chiedere a Roosevelt di richiamarlo in patria, ed è celebre la battuta che disse a Chamberlain quando seppe dell’accordo con i nazisti: «Avevi due opzioni, l’infamia e la guerra. Hai scelto l’infamia e avrai la guerra».
Nella sua analisi, Buruma ricorda l’eroismo dell’«ora più buia» e racconta gli sforzi di Churchill per convincere Roosevelt ad entrare in guerra, sottolineando come il suo momento di massima gloria sia coinciso con l’inizio della fine dell’impero britannico: alcune delle pagine più interessanti sono quelle in cui lo statista si rende conto che anche l’alleato Roosevelt era favorevole all’indipendenza dell’India.
Il libro non è meno efficace quando ripercorre il rapporto alterno tra i vari leader: tra Kennedy e il conservatore Lord Maurice Harold MacMillan, primo conte di Stockton – il nome completo aveva un peso sui due lati dell’Atlantico — esisteva un sostanziale equilibrio, basato sulla stima e il rispetto reciproco. Lyndon B. Johnson disistimava profondamente il laburista Wilson. Anche LBJ era un liberal, gli vanno ascritte alcune delle riforme più importanti della storia americana, tuttavia, anche a causa di un carattere estremamente rozzo, ebbe nei confronti di Wilson atteggiamenti padronali sul piano politico e sgradevoli su quello privato.
Un nuovo momento di sostanziale equilibrio e stima reciproca avvenne negli anni Ottanta con la “relazione straordinaria” tra Reagan e Thatcher: il presidente americano era assolutamente consapevole di essere a capo di una forza dominante, ma specie nel momento cruciale della lotta al comunismo trovò nella lady di ferro non solo una preziosissima alleata, ma una persona a cui lo legavano una condivisione di fondo di valori, ideali e scelte politiche. Questo nuovo momento di sintonia risulta ancor più significativo se si pensa che nel periodo di Reagan cadde per sempre “la cortina di ferro” di cui aveva parlato proprio Churchill. In precedenza Thatcher aveva tenuto invece in poca considerazione Carter, al quale riconosceva soltanto che essendo «un pio cristiano è un uomo di ovvia sincerità».
Affascinante la descrizione dell’evoluzione politica di Tony Blair, il quale nei primi anni di governo dialogò in maniera costruttiva con Clinton e quindi strinse un’alleanza ferrea con George W. Bush. Buruma sottolinea alcune affinità caratteriali tra quest’ultimo e Blair: oltre a un passato segnato dall’alcolismo, i due interpretavano il rispettivo ruolo in una dimensione messianica. A proposito di Bush, parla di «visione evangelica del destino americano», e nel capitolo successivo, dedicato ad Obama, sottolinea come per la prima volta un presidente americano abbia preferito come interlocutore non il primo ministro inglese ma il cancelliere tedesco, nella persona di Angela Merkel.
Dopo aver stabilito un suggestivo parallelo tra Theresa May e Neville Chamberlain, Buruma legge con sgomento l’evoluzione degli ultimi anni: riesce a trovare ben poco da salvare in un paese che ha votato la Brexit e oggi è governato da Boris Johnson. Ancor meno nell’America di Trump: il «ritorno alla grandezza» rappresenta suo avviso «la distruzione pianificata di ogni ideale – aperto, internazionale, riformista – che gran parte del mondo ammirava maggiormente nell’ordine anglo- americano».