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 2020  settembre 18 Venerdì calendario

L’invidia dei twittaroli per il film di Vanzina

Scriviamo tutti le stesse cose. Era vero prima di trascorrere tutti lo stesso anno, figuriamoci adesso. I primi mesi della vita da virus, chi di mestiere scrive li ha trascorsi a sospirare: ma non staremo prendendo tutti gli stessi appunti?
Chi non prendeva gli stessi appunti di tutti passava il tempo sui social a segnalare la propria virtù scrivendo cose come «io il vostro libro sulla quarantena non voglio leggerlo» (il sottinteso era: ma voglio che compriate il mio).
La miglior storia che m’abbiano raccontato in quei mesi ci siamo detti, con chi me l’aveva raccontata e con altra gente, che doveva assolutamente diventare un film, che avrebbe rappresentato il ritorno della grande commedia all’italiana.
Faceva così.
Legame ventennale inspiegabile. Lei carina, giovane, ricca, di ottima famiglia e fiorente carriera. Lui orrendo, privo di talento e di riuscita, noiosissimo, ma soprattutto l’unico vero maniaco sessuale che anche le meno lagnose di noi abbiano incrociato.
Quando ci fu il MeToo, anche quelle di noi che controcorrentavano «ma quando mai gli uomini ti mettono le mani addosso senza consenso, su», poi aggiungevano: beh, certo, tranne lui.
Decenni di dopocena hanno avuto come principale intrattenimento le cronache di questo derelitto (fate conto: Tognazzi in Io la conoscevo bene, ma con l’aggravante di sentirsi figo) che tampinava donne che gli avevano reso nitido che non c’era margine di riuscita, che restava sotto la tua finestra a urlare tutta notte sperando tu cedessi per stanchezza (certo che alcune hanno ceduto, vuoi mettere quanto si faceva prima), che non riconosceva un segnale di rifiuto neanche se esso veniva accompagnato dagli abbaglianti.
Decenni di conversazioni a chiedersi: ma lei perché se lo tiene, questo arnese senza qualità? Non è possibile che non sappia, orsù: lui è così clamorosamente senza lobi frontali, senza discrezione, senza uso di mondo.
Poi è arrivato il virus, la clausura, gli affetti stabili, e con essi il più bel soggetto cinematografico possibile: lei l’ha finalmente cacciato di casa, ma lui non lavora da anni, non può permettersi un appartamento, s’era deciso che andasse nella casa di Milano ma, proprio mentr’era sulla soglia col trolley, è arrivato il discorso alla nazione. Quello con cui il presidente del Consiglio vietava gli spostamenti tra regioni. E quindi? E quindi lei se l’è ritrovato in casa a forza, tapino nella stanza degli ospiti, cacciato senza alimenti, convivente senza dignità.
Noi ancora stavamo prendendo appunti, ed Enrico Vanzina ci aveva fatto un film. L’hanno annunciato ieri, ed è stato subito scandale du jour. Lockdown all’italiana. Selezione minima di tweet indignati, scartando quelli che si sono limitati ad accostare la foto della locandina e quella dei camion con le bare, perché insomma pure per indignarsi ci vuole un po’ meno pigrizia mentale di così, orsù.
«Sarà che io l’ho vissuto anche attraverso gli occhi di tutte le persone anziane, molte sole, dei parenti di ricoverati messi in quarantena e senza notizie, ma l’idea di farci un film mi fa vomitare!» (il commentatore medio di Twitter sembra sempre alle prese con un provino per interpretare quell’altoborghese metropolitana che sa tutto della sofferenza africana in Carnage).
«Non ho visto film ironici sull’11 settembre o su altre tragedie… Non c’è un cazzo da ridere o ironizzare su ciò che abbiamo passato!!!» (in effetti Vogliamo vivere! o Il grande dittatore erano ambientati in mezzo a epidemie di sbucciature sulle ginocchia, mica di polmonite).
«Mi stupisce che nel 1986 non abbiano fatto uscire tipo un Alvaro Vitali con Pierino a Chernobyl» (Vogliamo vivere! è del 1942, Il grande dittatore del 1940, ma continuiamo pure a citare il personaggio di Alan Alda che dice «Tragedia più tempo», personaggio che in Crimini e misfatti serviva a rappresentare il trombonismo più vieto).
«Da filmmaker mi fa male il cuore solo a pensarci» (si figuri a me che son della Bilancia e quindi esteta).
In questo universo etico basato sul principio «finisci la verdura perché i bambini muoiono di fame in Africa», lo scandalo è che Enrico Vanzina (gli anni 80! il capitalismo! la borghesia burina!) abbia osato fare una commedia (roba da ridere! invece che farci la morale dolente!) in cui Martina Stella ed Ezio Greggio, sebbene scoperti come adùlteri dai coniugi, si ritrovano costretti nelle rispettive case matrimoniali (oltraggio: si sa che, siccome là fuori i camion trasportavano bare, allora la gente aveva smesso di scopare, di detestarsi, di tradirsi).
Peraltro, per pensare che nel film che i commentatori indignati non hanno ancora visto manchi la moralina, bisogna non conoscere il gene dei Vanzina, i più moralisti che abbiano lavorato nel cinema italiano negli ultimi decenni.
(A raccontarmi la difficoltà del pubblico nel capire che, se mostri una cosa, spesso la stai stigmatizzando e non esaltando fu proprio Enrico Vanzina, molti anni fa, facendomi l’esempio di Un borghese piccolo piccolo, dell’ovazione del pubblico alla prima al cinema Fiamma quando Sordi dà il colpo di cric. Era il 1977. Avevamo bisogno delle didascalie «questo buono, questo cattivo» anche prima dei social).
Naturalmente nessuno – non gli indignati del Twitter, non chi ha intervistato Vanzina per fargli raccontare il film – si è fatto mezza domanda sull’unica vera inspiegabilità: il film esce al cinema, in un nuovo mondo in cui la gente non va al cinema per vedere Tenet, figuriamoci Lockdown all’italiana (che avrebbe probabilmente avuto un dignitosissimo esito su una piattaforma).
Ci sono ragioni fiscali, ragioni di interessi economici, ragioni che gli addetti ai lavori sintetizzano con «se le biotecnologie fossero aiutate fiscalmente quanto il cinema in sala, l’Italia avrebbe già il vaccino per il Covid 21». Ci sono ragioni che la ragione non conosce, e quando Enrico Vanzina dice «il pubblico sta tornando al cinema», l’intervistatrice del Messaggero si guarda bene dal buttar lì un «ma dove? ma quando?».
Ma tutto questo è irrilevante. Conta solo quella storia meravigliosa di convivenza forzata, e il fatto che, mentre noi ci baloccavamo con l’idea di scriverne, Enrico Vanzina aveva già scritto, girato, montato. Conta solo che, come diceva un’irrilevante commediola d’un tal Monicelli (un minore, sennò mica avrebbe fatto commedie), il genio è velocità d’esecuzione.