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 2020  settembre 17 Giovedì calendario

Le parentesi di Cesare Romiti

Ci sono persone che, in virtù del loro particolare ruolo pubblico, attivano una meccanica contraddittoria del ricordo e del giudizio retrospettivo sul loro operato, rivelandosi capaci di affascinare e respingere allo stesso tempo. È forse il caso di Cesare Romiti. I necrologi stilati dai mass-media ne hanno talora sottolineato le grandi qualità imprenditoriali, talora invece hanno espresso delle perplessità nemmeno troppo dissimulate. Ma, come vuole una consolidata retorica, dietro ogni personaggio pubblico si cela l’uomo, con le sue qualità e difetti, con il suo carattere e la sua personalità che possono completare o a volte contraddire la sua immagine pubblica.
Nella Teoria dei sentimenti morali Adam Smith individua fra le principali virtù la «simpatia», vale a dire la difficile capacità di liberarsi dal narcisismo del proprio io per immedesimarsi col proprio interlocutore. In altre parole, la capacità di interessarsi, ovviamente per un tempo limitato, esclusivamente o soprattutto a lui, ascoltarlo, capirlo, condividerne paure, ansie, incertezze. Questa virtù sembra farsi sempre più rara man mano che si risale la piramide della visibilità, del successo, dell’esposizione mediatica, fattori comunemente ritenuti responsabili dell’ipertrofia dell’io.
La vita di Romiti è stata un continuo gioco di attacco, difesa, contrattacco, mediazione, rigidità, critiche, alleanze, polemiche e sembrerebbe suggerire una scarsa propensione a conquistarsi uno spazio di autentica libertà interiore immune dalla gabbia totalizzante delle contingenze in cui si è trovato di volta in volta coinvolto da protagonista. Tuttavia, nella mia piccola esperienza personale, un breve ma significativo incontro con Romiti mi ha fatto scoprire in lui una capacità di quella libertà vissuta con grande naturalezza, segno di un’ulteriore intelligenza di natura più istintiva oltre a quella pratica e razionale comunemente tributatagli.
Era la primavera inoltrata del 1997 e stavo terminando il dottorato in Economia. Cominciavano ad assalirmi normali, ma non per questo meno tormentati dubbi sul fatidico che cosa fare dopo. Tramite alcune conoscenze, avevo avuto occasione di accennare fugacemente a Romiti quel mio disorientamento. Lui mi propose di andarlo a trovare nella sede Fiat di Corso Marconi a Torino – per una chiacchierata, forse per qualche prezioso consiglio e niente di più. Ero stupito e imbarazzato di fronte a questa sua disponibilità. Il mio profilo non aveva nulla che potesse interessare i suoi multipli orizzonti manageriali e del resto io non cercavo niente di specifico. Ero dunque certo che l’incontro sarebbe stato brevissimo, il tempo di una stretta di mano, una formale parola d’incoraggiamento seguita da un immediato congedo. Previsione tanto più giustificata dal fatto che in quel periodo Romiti era alle prese con importanti problemi aziendali di natura pure giudiziaria ed era impegnato più del solito.
Arrivato in Fiat in tarda mattinata, notai che nei corridoi aleggiava un’aria frenetica, un andirivieni di persone, fra le quali il suo avvocato, che si muovevano frettolosamente e nervosamente, incrociandosi e scambiandosi parole e documenti con volti evidentemente tesi e contratti. Puntualissimo, Romiti mi accolse sorridente e rilassato, nonostante le tensioni che con tutta probabilità aveva già accumulato in quella mattinata. Dopo avermi chiesto cosa e dove studiavo e quali fossero i miei progetti per il futuro, con grande tranquillità mi spiegò la differenza fra esercitare un’attività di ricerca a livello accademico o presso un ufficio studi di un’azienda privata. Il mio imbarazzo e la mia timidezza iniziali si sciolsero ben presto in un’atmosfera informale e il dialogo scivolò su altre questioni; presi pure il coraggio di esprimere qualche mia imberbe opinione sul mondo burrascoso di quel momento.
Trascorse più di un’ora e mezza, nel corso della quale non fummo interrotti né da una telefonata – cosa che non mi è mai più capitata con nessuno – né dall’irruzione di qualche collaboratore. Romiti aveva blindato quegli istanti da ogni interferenza esterna per discorrere con un timido e disorientato dottorando. Aveva introdotto una significativa parentesi nella sua preziosa giornata. Fuori di questa parentesi ribolliva il suo abituale mondo convulso e frenetico, ma quel minaccioso incombere di eventi non soffocava il semplice dialogo con uno studente incerto e intimidito.
Ad anni di distanza, l’atmosfera di quell’incontro mi lascia il ricordo e l’insegnamento di una rara qualità umana. Una qualità che appare solo per intermittenze. Saper vivere hic et nunc ogni istante, certo con la consapevolezza che esiste una gerarchia di cose e persone, ma riconoscendo pure che ogni situazione e ogni incontro hanno un loro senso insostituibile.
Si tratta di una particolare forma di libertà: la capacità di saper aprire e chiudere le varie parentesi della vita e di abitare pienamente ogni sua stanza, a prescindere dalla sua importanza. Un’attitudine che permette di avere lo sguardo lucido, perfino a volte cinico, sul reale e i suoi innumerevoli intrecci, ma che permette anche di non farsi risucchiare nelle sabbie mobili dell’autoreferenzialità e della febbre divorante del mondo.
Raramente le persone di potere e successo sono capaci di introdurre nelle loro vite parentesi di pausa e respiro; ma l’autentica libertà ed emancipazione consistono forse proprio nella capacità di evitare che le sfere dell’esistenza si contaminino fra loro e che quelle più importanti colonizzino totalmente il territorio di quelle subalterne. L’attenzione riservata ad ogni interlocutore, a prescindere dal suo status o dal legame affettivo o professionale che si ha con lui, è un’ulteriore spinta all’esercizio concreto di tale libertà.
Il capitalismo è anche brutale e spietato e lo sono non di rado pure coloro che stanno ai suoi vertici, come testimoniano i licenziamenti di massa, la compressione dei salari, la liquidazione degli avversari interni, i rapporti incestuosi con la politica, i sabotaggi della concorrenza. Forse la simpatia smithiana è una virtù oggi più che mai necessaria per bilanciare gli squilibri del sistema con una robusta dose di passione etica che, direbbe Hume, dovrebbe propagarsi per contagio. Cesare Romiti non lo teorizzava esplicitamente, ma quel giorno mi parve di capire che l’aveva intuito bene.