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 2020  settembre 17 Giovedì calendario

Intervista a Petros Markaris

L’ultimo giallo di Petros Markaris inizia con un funerale. Solo che la bara è vuota: perché quelle che sfilano mestamente nelle prime pagine del libro sono le esequie "della sinistra". Nella crisi di partiti e ideologie, i poveri di Atene non sanno più a che santo votarsi. In loro soccorso giunge un ricco uomo d’affari saudita, deciso a creare un enorme complesso turistico alle porte della capitale, ma non fa in tempo a mettere nero su bianco il progetto che viene assassinato. «Incredibile, arriva qualcuno per investire su questo paese e lo ammazziamo» è il caustico commento del commissario Kostas Charitos in L’omicidio è denaro , quindicesimo romanzo di Markaris che ha per protagonista uno dei poliziotti seriali di maggiore successo in Europa (in Italia lo pubblica ora La nave di Teseo). Ancora più che in altre occasioni, stavolta la sua indagine, aiutata dall’immancabile moglie Adriana fra effluvi di souvlaki, carciofi alla costantinopolitana e piselli con feta, fa affiorare non solo il profilo di un killer ma pure gli enigmi del nostro tempo. Il momento propizio per interrogare l’83enne autore sul mondo di oggi visto dalla ultramillenaria spianata dell’Acropoli.

Senza rivelare come finisce, cosa l’ha spinta a scrivere questo romanzo, Markaris?
«Il declino della classe media, particolarmente nell’Europa meridionale, in Grecia, Italia, Spagna. Un esercito di nuovi poveri che è andato ad aggiungersi a quelli già esistenti. Buona parte dei problemi delle nostre società odierne, dalla crisi della sinistra tradizionale all’ascesa del populismo, derivano da questo».
Un tema molto sociale per un giallo.
«Ma i gialli sono un ottimo strumento per raccontare la società. E lo conosco bene perché provengo anch’io dalla classe media».
Al centro della vicenda ci sono anche i migranti, i nuovi poveri...
«Il romanzo inizia in un quartiere di Atene pieno di immigrati dell’Asia minore. Si presentano al funerale della sinistra dicendo al vecchio militante: siamo con voi.
Ma non tutti capiscono subito che nuovi poveri e classe media in declino dovrebbero allearsi. Per un mondo migliore e, nel caso della mia storia, per risolvere un delitto».
Vista dalla Grecia che ne è uno dei bersagli, si può risolvere la tragedia dei migranti?
«Sarebbe semplice, ma la maggior parte dei paesi europei non vuole assumersi le proprie responsabilità. La Ue affronta la questione dei migranti continuando a scaricarla sui paesi in prima linea, Italia e Grecia innanzi tutto».
Come si sta ad Atene, dopo la devastante crisi economica che avete superato?
«L’abbiamo superata con dieci anni di sacrifici e adesso ci è caduta sulla testa un’altra crisi, provocata dal Covid. I greci sono stanchi e disperati. La vita quotidiana ad Atene sembra normale, perché caffè e negozi sono aperti, ma dentro sono vuoti».
Le pare che il suo paese abbia affrontato bene la pandemia?
«Sorprendentemente bene, nella prima fase. I greci, come gli italiani, non hanno la reputazione di essere disciplinati e ligi alle regole, ma lo sono stati per mesi, prendendo tutte le misure necessarie. Poi è arrivata l’estate e i contagi sono saliti. Ma la Grecia si gioca tutto sul turismo. Rimanere chiusi voleva dire morire di fame invece che di virus. Un dilemma atroce».
Come per i migranti, la Ue ha gestito in ordine sparso anche il coronavirus…
«È mancata una politica comune e soprattutto, ancora una volta, la vera solidarietà verso i paesi più colpiti. Anche in questo caso nell’Europa del Sud, Italia e Spagna».
A proposito di Europa, anni fa si temeva la Grexit, invece è arrivata la Brexit.
«Sono sempre pronto a criticare il mio paese, ma devo dire che, rispetto a come si è comportato il Regno Unito sulla Brexit, la Grecia mi sembra il paradiso. Quando emigrai ad Atene da Istanbul nel 1964, sentivo sempre dire dai greci: un giorno diventeremo un vero paese europeo anche noi. Ebbene, lo siamo diventati, ma non perché noi ci siamo innalzati al livello dell’Europa: è l’Europa che si è abbassata al nostro».
Cosa pensa uno come lei nato e cresciuto a Istanbul delle nuove tensioni fra Turchia e Grecia?
«Ci ho convissuto a lungo con quelle tensioni: pochi giorni fa in Grecia abbiamo commemorato l’attacco del 1955 contro i greci di Istanbul. Quello che c’è di nuovo è l’aggressività di Ankara: il governo turco vuole ricreare l’Impero Ottomano. Finché rincorre questa illusione ci saranno guai».
Le manca la Istanbul della sua giovinezza?
«Quella città è parte di me, l’ho infilata anche nelle indagini del mio commissario. Ci sono sempre andato tre o quattro volte l’anno.
Ora non so. Mi ha ferito la trasformazione di Santa Sofia da museo in moschea. I suoi mosaici, come quelli che ho visto a Ravenna, sono un patrimonio artistico dell’umanità».
Perché ha scelto una frase di Brecht come epigrafe di "L’omicidio è denaro"?
«Per dare un filo di speranza. La frase dice: nemmeno il diluvio universale è durato in eterno.
Passerà anche la pandemia e prima o poi i problemi economici verranno risolti. Il dubbio è quanti sopravvivranno fino ad allora».
E il libro termina con una battuta della moglie del commissario: "Solo i sentimenti ti possono aiutare". Conta più il cuore del cervello?
«In tempi difficili come questi, sicuramente sì».
L’anno scorso è mancato Andrea Camilleri: le fa piacere che il commissario Charitos venga paragonato a Montalbano?
«Molto, anche perché Camilleri era un caro amico. Ho sulla scrivania di casa il suo ultimo romanzo, non vedo l’ora di leggerlo».
Charitos viene paragonato pure a Maigret.
«Viviamo in un’epoca in cui bisogna sempre dare un’etichetta alle cose: il vero nome non basta.
Per cui Charitos sarebbe il Maigret greco e io il Simenon greco. Lascio che dicano, anche se non è poi tanto vero. Charitos somiglia di più a Montalbano e io a Camilleri, come la Grecia somiglia più all’Italia che alla Francia. Facciamo tutti parte del Sud».