la Repubblica, 17 settembre 2020
Consulta, i presidenti brevi
Magistrato di lunghissimo corso, il nuovo presidente della Corte costituzionale è Mario Rosario Morelli. Nome legato alla sentenza della Cassazione che consentì di staccare la spina a Eluana Englaro, ma nel suo curriculum c’è anche l’istruttoria dello scandalo Lockheed, che seguì allora come assistente alla Consulta. Una vita fa. E ieri il successore di Marta Cartabia lo ha rimarcato con la nostra Liana Milella: «Ho vissuto in questo palazzo per cinquant’anni, ho assistito a tante elezioni…». Senza mostrare alcun imbarazzo né per il fatto di non aver ricevuto l’unanimità, né per dover affrontare una presidenza così effimera. Ottantasette giorni, durerà.
Ma non sarà l’incarico di presidente della Consulta più breve della storia repubblicana solo perché il record di Vincenzo Caianiello, presidente per 44 giorni, resta ancora inarrivabile. Mai, però, dire mai. «C’è una lunga tradizione alla Corte», ha spiegato Morelli a Liana Milella, «in cui si affiancano due linee di pensiero sull’elezione del presidente, quella dell’anzianità, con interrogativi sul tempo che si ha di fronte; dall’altra parte c’è la fedeltà a questo palazzo».
Già, l’anzianità. Una regola causa di gravi distorsioni e inefficienze del nostro sistema burocratico. Che tuttavia nello specifico rende davvero decisivi gli interrogativi sulle ragioni della durata degli incarichi. Ragioni che con una virtù impegnativa come la fedeltà c’entrano fino a un certo punto.
In 64 anni di storia, da quando nel 1956 si è insediata la Corte costituzionale, ci sono stati 43 presidenti. In media, uno ogni 549 giorni: un anno e mezzo. Ma di questi ben 19, quasi metà, in carica per neppure un anno, quattro soltanto qualche giorno più di tre mesi e un paio addirittura meno. È il folle risultato della regola dell’anzianità, appunto. Prassi vuole che venga nominato presidente il giudice più anziano per mandato, il quale com’è noto ha una durata di nove anni. E questo anche se alla scadenza manca una manciata di settimane. La prassi è poi diventata via via più stringente con il passare degli anni. Sono lontanissimi i tempi di Gaspare Ambrosini, presidente per ben 5 anni, dal 1962 al 1967, ma anche quelli di Francesco Saja, alla guida della Consulta per tre anni e 4 mesi fra il 1987 e il 1990. Basta dire che nell’ultimo decennio si sono avvicendati ben 11 presidenti.
Il risultato di tale prassi a dir poco anacronistica è stato quello di consentire a tantissimi giudici costituzionali di andare in pensione come presidente, con tutti i privilegi del caso, altrettanto anacronistici: da quelli previdenziali ai benefit correlati alla funzione. Un po’ come succede nell’esercito per gli ufficiali, promossi al grado superiore giusto alla viglia del congedo. Paragone che potrebbe sembrare irriverente, anche se il dubbio svanisce alla luce dei numeri reperibili nel sito della stessa Corte costituzionale.
Dal gennaio 1956 a oggi si sono alternati alla Consulta 117 giudici costituzionali. Di questi ben 43 sono diventati presidenti. Il 37 per cento. Altri 29 hanno avuto l’incarico di vicepresidenti, come Giuliano Amato e Giancarlo Coraggio nominati ieri. Così di giudici costituzionali “semplici” non se ne contano che 45, compresi gli ultimi due arrivi (Emanuela Navarretta e Angelo Buscema). E il 12 dicembre prossimo si dovrà già eleggere il successore di Morelli. Lui ha già anticipato: «Al 99,9 per cento sarà Giancarlo Coraggio». Ossia il più anziano dopo Morelli, che scadendo a gennaio del 2022 potrà quindi durare un annetto. Evviva.
L’Italia non è un Paese per giovani e la regola dell’anzianità, soprattutto nella pubblica amministrazione, soffoca ovunque quella del merito, oltre a essere la fonte di privilegi inaccettabili. Ormai lo sanno pure le pietre, e anche per questo siamo fermi da vent’anni. Ma si può andare avanti così? E soprattutto non toccherebbe alle istituzioni, quelle più autorevoli, cominciare a dare il buon esempio?