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 2020  settembre 17 Giovedì calendario

Gossip e fake news nell’Antica Roma

«Quello è indegno di governare, va in giro con quella poco di buono, a metà tra l’attrice e la prostituta... Si comporta come un satrapo». «Sarà buono il tuo di candidato, con quelle cene che costano milioni, e quella cricca di perversi che si porta dietro... E con che risultato? Vuol dare la cittadinanza a tutti, bella roba!».
Litigio al barsport della politica negli anni 20 del XXI secolo? No, piuttosto litigio da taverna dalle parti della Suburra, popoloso quartiere di Roma, negli anni 30 del secolo I avanti Cristo. Sono usciti due volumi che raccontano la convulsa fine della Repubblica Romana che, prima di trasformarsi in un impero multietnico, nei suoi spasmi finali oscillò tra il lusso e i bagni di sangue, tra il chiacchiericcio politico e l’assassinio altrettanto politico. A leggerli, a tratti, sembra che quel mondo così lontano sia incredibilmente vicino. Prendiamo il saggio biografico di Luca Fezzi, Cesare. La giovinezza del grande condottiero (Mondadori, pagg. 215, euro 20). Il prestante e ambizioso Cesare ha tutte le carte in regola per ambire a cariche politiche e sacerdotali (a differenza di oggi non nettamente separate nell’antica Roma). Carte buone dicevamo ma la mano è sbagliata, la sua famiglia è, almeno in parte, legata alla fazione di Mario, uscita molto male dal primo abbozzo di guerra civile. Il ragazzo però si muove bene, sfugge alle proscrizioni (in soldoni far giustiziare con succulenta taglia i leader della fazione avversa), dimostra di avere talento nei processi sia come difensore che accusatore (strano, anche allora usare politicamente le sentenze era la prassi) e quando mette piede in Oriente, poco più che ventenne, tra l’80 e il 79 a.C., inizia a dimostrare il suo talento militare e diplomatico. Anche con questo innato funambolismo non evita, però, gli schizzi di fango che sono l’arma base utilizzata nell’Urbe. La sua trattativa con Nicomede IV re di Bitinia fu troppo riuscita. Venne accusato di essersi carnalmente prostituito al re, notoriamente avido di giovanotti prestanti.
Cesare l’accusa non se la levò di dosso mai più. Quando in un processo a Roma ne difese la figlia, Nisa, iniziò ad elencare i benefici che quel re aveva elargito ai romani. Cicerone lo stoppò con un colpo bassissimo: «Passiamoci sopra per carità, perché nessuno ignora cosa hai avuto... e cosa gli hai dato!». Ma era solo l’inizio, Cesare riuscì a portare avanti la sua carriera, ma ad ogni angolo era nascosto lo sgambetto politico. Come nel cosiddetto scandalo della Bona Dea (4 dicembre del 61 a.C.). Mentre Cesare era Pontefice massimo e Pretore (la seconda carica dopo quella di Console), il futuro Questore Publio Claudio Pulcro detto Clodio si introdusse in casa sua vestito da flautista, approfittando dei festeggiamenti della dea della fertilità durante i quali nessun maschio poteva restare a casa. Pare avesse un ben orchestrato combino con Pompea, la seconda moglie di Cesare. Qualcosa andò storto e venne scoperto dalla madre di Cesare, Aurelia, che vigilava occhiuta. Ne uscì uno scandalo di prima grandezza. Cesare ripudiò la moglie ma si guardò bene dal testimoniare contro Clodio che era uno degli eroi della fazione popolare, la sua. Anche perché con l’interruzione di un rituale religioso a Roma si rischiava grosso. Il processo finì in nulla a colpi di corruzione (12 milioni di sesterzi). Ma a Clodio servì a poco. Nel 52 a.C. fu ucciso in un violento scontro con il suo rivale politico Milone, si dice proprio vicino ad un tempio della Bona dea. Cesare invece si limitò a portarsi dietro un’altra fitta dose di maldicenze, che durarono sino alle idi di Marzo del ’44. Nessuno, nemmeno Cesare, era in grado di conciliare gli affari degli ottimati, le richieste frumentarie (l’allora reddito di cittadinanza), la tassazione sempre in salita per le guerre e le richieste dei reduci (appezzamenti di terreno da usare come pensione).
Se ne rese ben conto la generazione seguente. Quanto il veleno del gossip sapientemente utilizzato – anche da Cicerone e chi si fingeva super partes – e della calunnia politica facilmente si trasformasse in violenza emerge bene dal saggio di Giovannella Cresci Marrone edito da Salerno nella prestigiosa collana diretta da Andrea Giardina: Marco Antonio (pagg. 300, euro 22; in libreria dal 24 settembre). Nell’approfondire la vita e la politica del triumviro, sconfitto ad Azio, diventa preponderante il tema delle fake news. Non siamo nemmeno più in grado di ricostruire esattamente quale fosse il vero programma politico di Antonio (83-30 a.C.), tanto la propaganda di Ottaviano Augusto ha inquinato le fonti. La descrizione dell’ex Console, che con Cleopatra cercò di spostare gli equilibri di potere nel Mediterraneo, rimasta agli atti della vulgata è nota. Iracondo, bevitore, coraggioso ma incosciente, irretito dalla prima sottana che passa a partire dalla mima Licoride (che lui portava a spasso per l’Italia in un carro con aggiogati dei leoni), per poi proseguire con la moglie Fulvia (per altro abilissima tessitrice di trame politiche) e infine da Cleopatra. In realtà, spiega la professoressa Cresci Marrone, Antonio portava avanti una politica molto articolata. Le sue grandi feste alcoliche erano messe in scena in cui impersonava Dioniso, avevano la funzione di veicolare un preciso messaggio politico. Sulle orme del dio, Antonio voleva farsi latore di un nuovo ordine, più libero dal mos maiorum e meno romanocentrico. Distruggendo il sistema politico della Roma repubblicana? Non è detto. Di certo non ponendosi in una posizione subordinata a Cleopatra.
Ottaviano però fu più furbo. Si vendette come il nuovo Apollo, un dio più ordinato. Colpì il suo avversario con volantini diffusi tra i suoi soldati, aizzandoli sugli stipendi. Arrivò a promuovere l’iconografia di Antonio in forma di Ercole debosciato che si faceva «strappare la clava» da Onfale-Cleopatra... Altro che politica del gossip degli anni Duemila. Così, prima ancora che la battaglia navale di Azio, Ottaviano vinse la guerra di parole e di immagini. Convinse i romani che con lui avrebbe regnato l’ordine e il frumento sarebbe stato garantito, così come i diritti politici dei cittadini. Le prime due affermazioni erano in buona parte vere (soprattutto per chi lo sostenne), sulla terza si potrebbe discutere. Antonio avrebbe fatto meglio? Non lo sapremo mai, la Storia la scrive chi usa meglio il gossip.