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 2020  settembre 17 Giovedì calendario

L’onda lunga della grande crisi d’autunno

Sarà un autunno caldo per gli Stati Uniti. Non tanto per le elezioni. Quanto piuttosto per la crisi dell’economia reale della prima potenza mondiale.
Per questo Jerome Powell ha confermato la politica accomodante della Fed: la banca centrale americana continuerà a lungo l’atteggiamento di “colomba” nella politica monetaria, per tentare di accompagnare una ripresa più complessa del previsto. Secondo un sondaggio tra economisti e analisti di Cnbc i tassi resteranno bassi fino al 2023.
Tutti gli elementi negativi messi assieme compongono un quadro drammatico. L’onda lunga della recessione americana rischia di travolgere come uno tsunami il resto del mondo occidentale, l’Europa, l’Italia. E in misura ancora maggiore i Paesi del sud del mondo.
La Fondazione Gates ha appena pubblicato il suo quarto rapporto annuale che monitora i passi avanti degli obiettivi globali per lo sviluppo, i Global Goals dell’Onu. Le conclusioni sono che il coronavirus ha cancellato vent’anni di progressi del mondo, con un incremento delle diseguaglianze, il livello di povertà estrema salito del 7 per cento.
La cooperazione scientifica internazionale sta aiutando a rispondere alla pandemia. Ma nessun Paese sarà capace di vincere da solo questa sfida: «Questa è una crisi globale condivisa che richiede una risposta globale condivisa», conclude il report. Cosa che a livello politico in questi mesi non è avvenuto con la presidenza americana del G-7 e il vertice dei grandi cancellato. L’Fmi sostiene che nonostante i 18mila miliardi di dollari di stimoli pubblici decisi in tutto il mondo, l’economia globale perderà 12mila miliardi a fine 2021: il crollo del Pil globale più significativo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
L’America che finora, fino a Trump, aveva sempre guidato la comunità internazionale, ora guida la poco invidiabile classifica del Paese più colpito dal coronavirus: 6,6 milioni di casi, e i 200mila morti che verranno superati tra pochi giorni.
La ripresa a V di cui parlano gli economisti si è trasformata in una ripresa a K o a W. Gli Stati Uniti hanno stanziato migliaia di miliardi di aiuti. Soldi sono arrivati alle famiglie, alle aziende e ai settori più scoperti. Ma la “paghetta” finisce prima o poi senza un reddito. Al Congresso da tre mesi non si riesce a trovare un accordo per il nuovo piano di aiuti. Trump non vuole sostenere i disastrati bilanci delle città e degli Stati, in prima linea nella lotta al Covid, a meno di due mesi dalle elezioni, perché la maggior parte sono guidati da democratici.
A luglio sono scaduti i 600 dollari di aiuti settimanali ai disoccupati del Cares Act. In assenza di un’intesa, l’8 agosto Trump ha firmato un ordine esecutivo che proroga la scadenza dei sussidi riducendoli a 300 dollari settimanali. Sussidi che gli Stati stanno cercando di pagare per non lasciare milioni di americani senza di che vivere. Su 49 Stati che hanno chiesto al governo federale gli aiuti, solo 21 Stati hanno iniziato a pagare i benefit. In Florida il dipartimento delle Opportunità economiche ha fatto sapere di aver ricevuto l’approvazione federale per pagare i 300 dollari. Dopo i pagamenti delle prime quattro settimane di agosto i soldi sono finiti. Senza nuovi fondi federali i disoccupati della Florida e presto anche gli altri perderanno anche questo sostegno.
La spesa con le carte di debito negli Usa in agosto è aumentata del 24% rispetto allo stesso mese 2019, a causa della fine dei sussidi di disoccupazione, dai dati Visa. Milioni di americani non riescono a pagare gli affitti e la rata dei mutui. Trump ha sospeso gli sfratti sino a fine anno. Ma è una bomba ad orologeria pronta a esplodere. Assieme ai debiti commerciali delle tante società che pesano sulle banche. E ai debiti degli studenti – un mercato da 1.500 miliardi – con il numero di rate non pagate salito alle stelle.
Circa 30 milioni di americani vivono con i sussidi di disoccupazione contro gli 1,6 milioni dello scorso anno, dai dati del dipartimento al Lavoro. La disoccupazione americana ad agosto è scesa all’8,4% dal 14,7% di aprile. Ma resta più alta dai picchi delle peggiori crisi dal Dopoguerra. Tante delle sospensioni dal lavoro sono destinate a diventare licenziamenti.
Mentre Wall Street continua a guadagnare, aiutata dai software automatizzati che dominano le transazioni e dalla corsa dei titoli tecnologici, grandi protagonisti di questa crisi pandemica, Main Street continua a far fatica. Il Pil degli Stati Uniti nel secondo trimestre ha registrato un crollo record del 31,7%, la più grande contrazione mai registrata. La produzione industriale è aumentata in agosto per il quarto mese consecutivo ma resta ancora al di sotto del livello pre-Covid. I consumi che pesano per il 70% sull’economia americana non ripartiranno fino a quando il virus non sarà superato. Ad agosto, il mese delle spese per il ritorno a scuola, le vendite retail sono salite solo dell’1,1%, meno dell’1,2% registrato a luglio.
I fallimenti delle catene della grande distribuzione – circa uno a settimana da inizio pandemia – sono solo la punta dell’iceberg. Non soffre solo il retail. Interi settori economici sono in profonda crisi: l’industria dell’ospitalità e della ristorazione, il turismo, le compagnie aeree. Solo a New York, Axios stima che 1.200 ristoranti hanno chiuso per sempre. Molti alberghi hanno rimandato la riapertura in primavera. Le grandi società hanno prorogato lo smart working fino a giugno 2021. Gli uffici delle città sono in gran parte vuoti. Migliaia gli appartamenti sfitti: solo a Manhattan hanno raggiunto il numero record di 13mila. Le municipalizzate sono allo stremo con miliardi di debiti. Così come i bilanci pubblici dei Comuni e degli Stati pronti a tagliare servizi e personale.
Gli Stati Uniti continuano a rallentare anche nel commercio estero. L’interscambio Usa-resto del mondo ha avuto un calo del 13,7% nel periodo gennaio-luglio per la contrazione della domanda di beni industriali e di consumo. Le importazioni americane dalla Ue sono scese del 13%. L’Italia – dicono i dati Ice – ha registrato una diminuzione più marcata (-20,4%) rispetto alla media europea con tutti i settori del made in Italy in calo.