il Giornale, 16 settembre 2020
Intervista a Carlo Rovelli
Per raccontare l’ubriaca energia di Vladimir Majakovskij, Roman Jakobson snocciola un aneddoto, lo leggete in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Nel 1920 l’insigne linguista rientra a Mosca dopo un viaggio in Europa. «Majakovskij mi fece ripetere più volte il mio resoconto confuso della teoria generale della relatività Raramente lo avevo visto così attento e affascinato. E tu non credi, mi domandò, che così sarà conquistata l’immortalità?’». Majakovskij vuole, senza indugi, incontrare Albert Einstein. «Con un’ostinatezza ipnotizzante serrando le mascelle, disse: Io sono assolutamente convinto che la morte non ci sarà’». Il poeta, sentinella sull’incredibile, vuole vincere la morte; lo scienziato tenta di descrivere la vita. Qualche anno dopo un ragazzo di talento, Werner Heisenberg, si ritira sull’isola di Helgoland, severo spicchio di terra nel Mare del Nord, e con la stessa «ostinatezza ipnotizzante» realizza la formula della meccanica dei quanti. Da lì, dalle rocche di Helgoland (Adelphi, pagg. 228, euro 15), parte il libro di Carlo Rovelli, fisico, divulgatore, come si dice, «di fama mondiale». Della fama m’importa poco, ma ho fame di ciò che ignoro: le parti più belle del libro sono quelle in cui Rovelli dà vita e colore «dickensiano» agli scienziati, Wolfgang Pauli («bravissimo, intelligentissimo, arrogante, spavaldo»), Erwin Schrödinger («ha sempre avuto diverse compagne contemporaneamente, e non ha nascosto una fascinazione per le preadolescenti»), Heisenberg, appunto, ventenne, «arrampicato sulla roccia a picco sul mare dopo avere gettato per primo lo sguardo su uno dei più vertiginosi segreti della Natura che l’umanità abbia mai intravisto». La fisica dei primi trent’anni del Novecento ha qualche analogia con la nascita della filosofia, nell’Atene di Socrate. Ogni tanto ho discusso con Rovelli di Leopardi, di Rilke: il fisico ama la poesia. Sessant’anni fa Saint-John Perse, poeta abissale, già alto diplomatico di Francia e geologo per diletto, disse, ricevendo il Nobel, che poeti e scienziati «non vanno visti come fratelli ostili: stanno esplorando lo stesso abisso». Il primo capitolo del libro di Rovelli s’intitola, Tuffare lo sguardo nell’abisso. Qui continuiamo il nostro dialogo.
La teoria dei quanti, scrive, «ci riempie di stupore, confusione, incredulità». Tra stupore e incredulità c’è la differenza che sta tra l’avventuriero e lo scettico, mi pare.
«Bello. Tra stupore e incredulità c’è la differenza che sta tra l’avventuriero e lo scettico. Ma uno scienziato deve proprio essere in equilibrio fra l’avventuriero e lo scettico. Anzi essere entrambi. Deve gettarsi nell’avventura di inventare mondi nuovi, senza paura di proporre follie, e poi anche essere uno scettico, tanto sulle proprie fantasie quanto su quelle degli altri, e ancor più sulle idee comuni... questo misto di avventura e scetticismo è la scienza... Per questo stupore e incredulità stanno insieme. La seconda non ferma, e non ci si ferma al primo».
Spieghi i quanti a uno che non ne sa nulla, in un paio di frasi.
«Tre frasi invece di due me le concede? (i) Il mondo è granulare a piccola scala. (ii) Il presente non basta a determinare né quello che succederà né quello che è successo. (iii) Le proprietà delle cose esistono solo nelle interazioni con altre cose, sono reali solo rispetto alle cose che interagiscono: il mondo non è un insieme di oggetti con proprietà, è una rete dinamica di relazioni».
Nel libro esalta la natura epica, perfino eroica della scienza: «la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero». Eppure, il mondo non parte «da zero» e dalle escursioni mistiche di Heisenberg nell’Isola sacra alla bomba atomica sappiamo che il passo è brevissimo. Insomma, mi pare che la scienza troppo spesso non sia un modo di spiegare il mondo ma di piegarlo, perfino di ammazzarlo. È così?
«Tutti i modi di spiegare il mondo sono anche modi per piegarlo ed ammazzarlo. Sia che riduciamo tutto ad atomi, a un Dio persona, all’economia, o ai sentimenti. E tutti i saperi hanno mani insanguinate. Scagli la prima pietra la visione del mondo che non ha ucciso. Sapere è potere e il potere corrompe. Io inseguo un parlarsi fra saperi diversi. E sogno di un mondo dove aiutarsi venga prima che difendere i propri interessi sulla pelle degli altri».
Lei fa spesso cenno alla letteratura. Cita Joyce, Goethe, Pirandello, Shakespeare, Robert Musil Come se vi fosse un intreccio inevitabile tra scienza e verbo.
«Penso che ci sia questo intreccio. La nostra comprensione del mondo non viaggia su canali separati. Si serve di strumenti concettuali che cambiano nel tempo e sono quelli di cui disponiamo. Sono elaborati dagli scienziati, dai filosofi, dagli scrittori, dai politici, dai poeti. C’è sempre stato uno scambio intenso fra i saperi. Non ci sarebbe stata la meccanica quantistica senza l’intera riflessione culturale fra l’Ottocento e il Novecento, come non ci sarebbe stata la letteratura moderna senza Copernico e Newton. Cerchiamo di comprendere il mondo, di averne una visione, e tutto concorre».
c’è anche una curiosa affinità tra i «caratteri» degli scienziati il donnaiolo Schrödinger, ad esempio e le loro teorie. Pare, insomma, al di là degli accademismi, che vi sia una priorità della vita, frugale, ferina, nella ricerca scientifica, che a noi pare diafana, compiuta da asettici studiosi ossessionati dall’infinitamente piccolo
«Gli scienziati sono umani, troppo umani, come tutti gli altri. Ho un’amica (Annalisa Panati) che ha scritto un bel testo di teatro che mette a confronto un grande fisico, quindi un essere umano preteso razionale, freddo, sensato, con un grande psicologo, che si immagina affondi invece il pensiero negli abissi dell’irrazionale in noi. Il risultato è che dei due il pazzo è il fisico. La storia è autentica, lo scienziato è Pauli, di cui parlo anche in Helgoland, spavaldo e arrogante, lo psicologo è Jung, la loro relazione è stata reale. La scienza è un corpo a corpo sanguigno e passionale con la realtà e le idee. Diventa razionale per difendersi dagli errori di ragionamento, ma ciò che la motiva sono le stesse spinte che motivano ciascuno di noi, spinte complesse, multiple, che ci vengono da dentro, che come tutte le nostre motivazioni sono le stesse in tutti noi eppure profondamente diverse in ciascuno».
Insiste spesso sulla scienza come spazio di libertà che «cambia le idee». Prima credevamo nel mondo descritto da Dante (non tutti, invero) ora in quello definito dai quanti. Eppure, l’uomo ha per natura il desiderio di abitare l’incomprensibile, senza spiegarlo. Vuole tutelare l’invisibile in un inno. Una liturgia religiosa chiede obbedienza, non di essere discussa e in questo inginocchiarsi all’invisibile non vedo una resa. Lei crede in Dio?
«No, non credo in Dio. O meglio, non ho mai capito cosa significhi credere in Dio. Quando lo chiedo a chi mi dice di credere in Dio (lo faccio spesso), ricevo le risposte più varie e strampalate. Non ce n’è una che abbia uno straccio di senso per me, eccetto quella di una suora e di una amica d’infanzia che mi dicevano ma io lo sperimento tutti i giorni, è in me, che capisco perfettamente, e condivido: anch’io parlo con gli alberi, e per me è importante. Sì, certo, che l’uomo vuole tutelare l’invisibile con un inno: è un altro modo, per usare le sue parole di poco sopra, di non di spiegare il mondo, ma di piegarlo, perfino di ammazzarlo. Ma l’uomo è complesso. Vuole sottomettersi, ma vuole anche ribellarsi. Vuole arrendersi, ma vuole anche combattere. Signori, il tempo della vita è breve se viviamo, è per calpestare i re (Shakespeare, Enrico IV). La vita è breve ed è meglio bruciare di curiosità, io penso, non vivere di lamento come un cardellino accecato (Ungaretti). O meglio, a chi piace chinare il capo lo chini. A chi piace alzare la testa, la alzi. Tanto non è questo che decide il nostro dolore o il nostro futuro, siamo semplicemente diversi. Perfino le liturgie religiose non sono tutte eguali: un buon maestro buddista non chiede una resa, non chiede fede: al contrario, chiede al discepolo di andare a vedere di per sé. Inginocchiarsi può anche essere bellissimo. Ma troppe volte nella storia è stato solo cedere alla malvagità».
C’è, sottotraccia, una visione «politica» del mondo nel suo libro...
«Certo. Tutto è segretamente politico. Perché la politica è il modo in cui ci giochiamo il nostro vivere assieme. Che altro facciamo, insieme?».
...mi spiego. Lei scrive che «Ogni visione è parziale. Non esiste un modo di vedere la realtà che non dipenda da una prospettiva», che «la politica di collaborazione è più sensata ed efficace della politica di competizione». Relativismo e cooperazione.
«No, non è relativismo. È proprio il contrario del relativismo. Relativismo è pensare che tutti i punti di vista siano equivalenti. Che non ci sia modo di dirimere. Penso proprio il contrario, i punti di vista si incontrano, dialogano, si confrontano, polemizzano, e nel dialogo ci si incontra, si cambia, si impara e lentamente insieme si comprende e si arriva a convergere. È questa la vera magia del pensiero scientifico; colossali epiche dispute, che alla fine sono risolte e si trova il consenso. Ma questo implica sapere che quando si incontra un’opinione diversa potrebbe essere l’altro ad avere ragione. E quindi implica il rispetto profondo per le opinioni diverse. Non il rispetto da lontano: il rispetto che apre al dialogo, a cercare di capire chi abbia l’opinione migliore. Il coraggio di essere pronti a lasciarsi influenzare. Relativismo è pensare che non esista un’opinione migliore. Io penso, al contrario, ci sia sempre, alla fine un’opinione migliore. Ma dal lato opposto del relativismo c’è il peccato ancora peggiore: quello di pensare di essere i Veri Depositari della Verità, quello di pensare che tutti gli altri sono nell’errore e Noi siamo il Giusto. Questo rende intolleranti, chiusi alla comprensione, all’imparare dagli altri. Questo è il peccato di tutti coloro che sono certi di detenere la verità morale finale, e la vogliono imporre agli altri, come avviene spesso».
Ripeto. Relativismo e cooperazione. Non mi sembrano sguardi originali.
«Non lo sono. Sono idee che hanno duemila anni. Ma in questi duemila anni sono spesso state in minoranza. Anche ora lo sono spesso. L’arroganza di Io sono il Giusto e l’avidità di prima me poi gli altri o prima il mio paese poi gli altri, sono comuni, ahimè».
La scienza è «morale»?
«No, non è morale. È come chiedere se un martello sia morale. Certo che non lo è: può salvare un uomo e ammazzarne un altro. Con la scienza se ne sono salvati molti e ammazzati molti. Piuttosto, la scienza ci può insegnare qualcosa su cosa sia la morale, perché ce l’abbiamo, da dove viene nella nostra storia biologica, evolutiva, culturale, sociale. Ci può aiutare a rendere effettiva la morale che è in noi in maniere più efficaci perché più razionali. La scienza si è accompagnata nell’Ottocento con movimenti culturali che hanno promosso la giustizia sociale, l’istruzione per tutti, la sanità per tutti, la fine della pena di morte, della schiavitù, eccetera in questo senso si è comportata moralmente bene. Le grandi forze anti-scientifiche erano contro tutto ciò, e in questo hanno mostrato la loro inferiorità morale, rispetto a valori che oggi sono nostri. Ma la scienza si è anche comportata moralmente male per esempio quando è stata al servizio del razzismo dilagante, o della volontà di potenza che si è espressa nelle catastrofi atomiche. Bene e male sono difficili da dirimere».
Ultima. Ritiene la scienza il miglior modo di guardare al mondo, all’uomo?
«Guardare al mondo e all’uomo solo attraverso la fisica o la biologia, ignorando Shakespeare, Beethoven, Nagarjuna o Spinoza è essere ciechi alla complessità del mondo. Guardare al mondo e all’uomo senza tenere conto di quanto ci hanno insegnato la fisica e la biologia è essere ignoranti e non avere il coraggio di guardare in faccia le cose. Martin Heidegger ha scritto che la scienza non pensa; intendeva che gli unici pensieri interessanti fossero i suoi, ma non è così: i pensieri interessanti sono molti di più...».