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 2020  settembre 15 Martedì calendario

1QQAN40 Paolo Fresco racconta la sua Fiat

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Lui è l’altro avvocato, quello che in Fiat cominciò a parlare di diversificazione. Quello che iniziò il sodalizio con General Motors. L’uomo che in General Electric, dopo una laurea in legge, si guadagnò la fiducia del capo indiscusso, Jack Welch. La carriera di Paolo Fresco non è stata di certo lineare, ma tra l’America e l’Italia, forse proprio per questo motivo, è stata forse una delle prime figlie della globalizzazione. Non è un caso dunque se il suo libro di memorie (in uscita il 17 settembre per la Nave di Teseo) si chiami «Mr. Globalization». La presentazione il primo ottobre a Firenze a Palazzo Vecchio con il sindaco Dario Nardella.
Fresco, nel ‘97 l’Avvocato la fece cercare da un headhunter, lei rispose che se ci teneva poteva chiamarla di persona e poi fu lo stesso Agnelli a chiederle di venire in Fiat, a prendere il suo posto.
«Mi fece mille domande, era di una curiosità infinita: nato per fare lo psicologo, ti valutava in 10 minuti di chiacchierata. L’ho ammirato molto per il fascino che sprigionava, per quelli della mia generazione era un idolo».
Poche settimane fa è scomparso Cesare Romiti, il vero volto della Fiat?
«Un manager del ‘900: adatto alla sfida da lui affrontata, non lo sarebbe stato per quello che ci attendeva. Uomini per tutte le stagioni non ce ne sono, il mondo sta cambiando troppo rapidamente. Romiti non era un uomo della globalizzazione, nonostante avesse ruoli internazionali. Era di una visione italocentrica: ha rappresentato una diversità profonda rispetto a me, forse traumatica, l’Avvocato ha capito che ci voleva un uomo nuovo per il secolo nuovo».
Un manager di ferro, poco incline al compromesso.
«Un uomo all’antica, il suo stile di management era più vicino al padrone delle ferriere che a un manager del 21esimo secolo. Ha avuto però un ruolo importante in quel momento e ha fatto buone cose».
Nel ‘98 si aprì l’era dei due «Paolo», Fresco e Cantarella: l’uomo di Agnelli contro l’uomo di Romiti.
«C’era confusione tra le deleghe mie e sue e quindi la domanda legittima era “chi è il capo?”. Ne parlai con Agnelli che mi rispose “cerchi di farla funzionare” e insieme l’abbiamo fatta funzionare, con Cantarella che si dedicava all’operatività e io alle strategie».
Con la scalata a Montedison si inimicò la Mediobanca di Maranghi.
«Guardi, Mediobanca aveva un potere enorme e devo dire che molti, anche tra le banche, si ribellavano a questo potere. Però Maranghi mi ricordava un cavaliere antico, un uomo tutto di un pezzo, non l’ho mai visto fare il furbo. Non potevamo essere compatibili e quindi dovevamo darci sciabolate come antichi cavalieri».
Terzo settore
Dal management alla guida della Fondazione contro il morbo di Parkinson
Lei, in General Electric, fu protagonista anche dell’acquisto di Nuovo Pignone. Erano i tempi dell’Iri. Ci fu prima una chiacchierata con Prodi?
«Mi accolse a casa a sua per parlarmene di fronte a un piatto di tagliatelle. Aveva lo stesso rigore monastico e l’intelletto elevato di Manmohan Singh, primo ministro indiano. Siamo tuttora amici e quando passo da Bologna mi ospita ancora nella sua cucina».
A proposito di uomini di peso, oggi si parla del destino di Mario Draghi.
«Lo conobbi durante un passeggiata sulle Dolomiti, ai tempi era dg del Tesoro: lui appartiene alla categoria di uomini che sono la più grande riserva della patria. Lui sì che è un uomo per tutte le stagioni, è giovane e mi sembra flessibile».
Nel 2000 convinse General Motors a un’alleanza con il Lingotto. Da quella Marchionne partì per rescindere il contratto e dare nuova liquidità, o no?
«La storia è legata al fatto che negoziai un “put” cioè diritto di forzare GM a comprarsi l’80% del business automotive, non tutta Fiat. È una cautela che uno prende non per esercitarla, ma come deterrente per l’acquirente a non comportarsi troppo da padrone. Al momento buono Marchionne capì che aveva forza contrattuale notevole e che Gm l’ultima cosa che voleva era comprarsi Fiat, quindi si vendette un diritto e prese 2 miliardi».
Dovette ringraziarla.
«Quando andai a trovarlo per dargli il benvenuto mi accolse sulla porta d’ingresso e disse “ecco l’unico che ci ha dato una mano nel passato”. Io d’altro lato ho chiarito che ci voleva uno con le palle per raccogliere i benefici di quello che avevo seminato. Nelle mani di un altro quel “put” non sarebbe andato così».
Perché un ex manager di Ge e Fiat anziché riposarsi ha scelto di combattere il Parkinson con la sua fondazione?
«Venendo dal mondo anglosassone mi ero impadronito del concetto di “give back”, cioè di restituzione ai benefattori. E poi c’era la mia compagna, Marlene, affetta da questa terribile malattia che me la portò via. Cominciai con una donazione di 25 milioni di dollari alla New York University che l’aveva curata. Poi ho fatto fiorire la parte italiana con la sede a Fiesole dove vivo, ma che coordina sei centri. Ho creato una rete di eccellenza che sta avendo un successo superiore alle mie previsioni. E dato che non ho figli, voglio che continui al di là della mia vita».