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 2020  agosto 07 Venerdì calendario

Biografia di Cat Stevens raccontata da lui stesso (con note su "Tea for the Tillerman²")

Cinquant’anni fa Steven Demetre Georgiou, bello come un dio greco, aveva ventidue anni e il mondo nelle sue mani. Con quel nome non sarebbe mai salito sulla giostra della Swinging London, già a diciotto anni se ne era scelto uno d’arte più accattivante, Cat Stevens, che lo mise agevolmente in sintonia con la scena musicale più effervescente della storia del pop. Quando il 23 novembre del 1970 pubblicò il quarto album, Tea for the Tillerman, era già un cantautore maturo che aveva suonato con Hendrix in giro per il Regno Unito: fu un trionfo, una svolta nella carriera (ne uscirono di capolavori quell’anno: Let It Be dei Beatles, Bridge over Troubled Water di Simon & Garfunkel, After the Gold Rush di Neil Young, The Man Who Sold the World di David Bowie, Tumbleweed Connection di Elton John, solo per citarne alcuni), la combinazione per aprire la cassaforte del mercato americano. Sembrava un idolo pop come tanti, notti folli a Roma con Helmut Berger e Florinda Bolkan, girlfriend sexy come Patti D’Arbanville e Carly Simon, vita da nababbo sulle coste del Pacifico e adorazione popolare, proprio grazie alle canzoni di Tillerman: Father and Son, Wild World, Where Do the Children Play?, Sad Lisa.

Sei anni e tre album dopo era già tutto finito. E non perché il pubblico si fosse stancato, anzi lo adorava, ma lui era insoddisfatto, irrequieto, infelice. Suo fratello maggiore, David Gordon, che gli faceva da manager, gli regalò una copia del Corano acquistata a Gerusalemme. Pochi mesi dopo, la conversione, senza se e senza ma: nel 1977 Cat Stevens diventò Yusuf Islam, la popstar si eclissò dietro un monaco invisibile; vent’anni di silenzio prima di scrivere un articolo per Musica! di Repubblica, nella seconda metà degli anni Novanta, in cui raccontava la conversione e i motivi che l’avevano indotto ad abbandonare la musica (concetti ribaditi nel 2001 in un’intervista pubblicata sul Venerdì).

Il resto è storia in bilico tra cronaca e polemica: la vicinanza all’Islam radicale; il matrimonio con una donna velata, Fauzia Mubarak Ali, nella Moschea di Kensington; l’appoggio alla fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie (poi ritrattata); le conferenze nelle università di Paesi come Turchia e Malesia; la fondazione di una scuola islamica a Londra; lo studio della lingua araba per affrontare personalmente l’analisi del sacro testo; il viaggio in Bosnia per documentare il massacro degli ottomila musulmani di Srebrenica; le molte accuse (mai provate) di finanziare attività terroristiche; l’amicizia con Muhammad Ali e Nelson Mandela; la presunta amicizia con il leader turco Erdogan; e nel frattempo l’umiliazione subita al Live Aid - nel 1985, Bob Geldof, che l’aveva invitato a una manifestazione zeppa di star, dimenticò di chiamarlo sul palco; segno che l’astro di Cat Stevens era definitivamente tramontato e nessuno ricordava il volto dell’autore di Father and Son, che tuttavia non ha mai smesso di essere un inno generazionale (come certificato dalla definitiva versione di Johnny Cash).

La tragedia dell’11 settembre segnò l’inizio del ripensamento: gli Usa lo dichiararono ospite non gradito, ma per lui l’attacco alle Torri fu anche l’occasione per riconsiderare il proprio percorso spirituale e valutare, prove alla mano, le insidie della radicalizzazione. Dopo una serie di album rigorosamente religiosi e diffusi principalmente nei Paesi islamici, Yusuf la smise di rinnegare Cat e riprese - con moderazione, come il Corano impone - il suo mestiere di cantautore: tre album dal 2006 al 2014, anno d’uscita del bellissimo Tell ’em I’m Gone prodotto da Rick Rubin. Ora, sorprendentemente, ha deciso di incidere una nuova versione del capolavoro Tea for the Tillerman, disponibile dal 18 settembre, che sancisce ufficialmente la riconciliazione tra la popstar e l’uomo di fede che il pubblico occidentale non smetterà mai di chiamare Cat Stevens. Where Do the Children Play?, con un video diretto da Chris Hopewell (che ha animato Burn the Witch per i Radiohead), è già sulle piattaforme e su YouTube. Yusuf/Cat Stevens vive da anni a Dubai (dove lo abbiamo raggiunto al telefono), "il posto che mi sono scelto per condurre  una vita da buon musulmano con la mia hard headed woman (donna testarda - Fauzia, evidentemente - come il titolo di una canzone di Tillerman, ndr) e il resto della famiglia".

È passato mezzo secolo da Tea for the Tillerman. Chi era Cat Stevens cinquant’anni fa?
"Un ragazzo, un artista in stato di grazia, molto creativo, onesto, alla ricerca della verità. Tillerman era l’incarnazione dei miei dubbi, dei miei sogni, delle mie riflessioni e delle mie preoccupazioni".

Non era il suo debutto, aveva già inciso tre album, ma quello diventò il suo biglietto da visita e il suo passe-partout. Che accadde nella sua vita a quel punto?
"Fu un terremoto, perché il successo arrivò inaspettatamente, soprattutto negli Stati Uniti, dove i dischi precedenti erano passati quasi inosservati, E, si sa, quando l’America adotta un artista lo vorrebbe tutto per sé, 24 ore al giorno, sette giorni a settimana, 365 giorni all’anno. Ma io ero vaccinato, avevo conosciuto lo star system degli anni Sessanta, le mie difese erano intatte e non ero disposto a farmi trascinare via dal successo. Volevo fare musica, toccare il cuore della gente, tuttavia quel che girava intorno allo show business m’intimidiva e mi spaventava. È un mondo nel quale non mi sono mai gettato a capofitto".

Come le è venuto in mente di incidere una nuova versione di Tea for the Tillerman?
"Mi è sempre piaciuto sfidare l’impossibile, ma non l’ho fatto perché oggi mi sento più intelligente e spavaldo di allora. Semplicemente volevo rimettere in moto quelle emozioni, con i miei vecchi collaboratori. Abbiamo trascorso una settimana esaltante in studio, è stata un’esperienza bellissima, senza tensioni, senza pressioni, tutti lì per la gioia di suonare e di far rivivere quelle canzoni. Spogliate di retorica e nostalgia sono più che mai attuali".

Che rapporto ha avuto con i successi dell’epoca negli anni immediatamente successivi alla conversione, quando sembrava che la musica non fosse più una priorità?
"Non ho mai rinnegato il passato e neanche le mie canzoni, men che meno quelle di Tillerman, per le quali ho sempre nutrito un grande affetto. Ero cosciente del fatto che quei brani non stavano perdendo la loro attualità, che quello era un messaggio universale. È stato meraviglioso scoprire come Where Do the Children Play e Father and Son siano così vicine allo spirito dei nostri tempi, è entusiasmante vederle rifiorire e parlare alla gente cinquant’anni dopo".

Cosa si aspettava dalla musica quando era un cantautore nella Swinging London, il periodo che determinò un’invasione globale della musica inglese?
"Fu entusiasmante e contagioso. Musicalmente, Londra era al centro del mondo, la nuova Tin Pan Alley. E io vivevo a Soho, che era il centro della scena musicale; i Beatles avevano i loro uffici a due passi da casa mia, Andrew Loog Oldham (il produttore dei Rolling Stones dal ’63 al ’67) faceva i suoi affari nel quartiere; non dovevo andare lontano per realizzare i miei sogni, tutto succedeva proprio lì. Sarebbe bastata una sola canzone dei Beatles a svegliare la mia generazione, ma quel che stava succedendo era molto più di un tormentone o di un album di successo, era un movimento, una sorta di chiamata alle armi: hey, ci sono migliaia di possibilità in giro, non lasciatevele sfuggire! Fu un periodo elettrizzante".

Father and Son fu realmente ispirata dai consigli e dalle raccomandazioni che suo padre cercava di darle?
"No, la canzone ha poco a che fare con le dinamiche familiari. Mio padre non era uno che faceva vita sedentaria, era un viaggiatore, un nomade, non gli piaceva stare sempre nello stesso posto. Dalla nativa Cipro si era trasferito in America, e successivamente nel Regno Unito. La canzone è piuttosto il frutto di riflessioni personali: dopo aver rischiato la vita per la tubercolosi, nel 1969, me ne stavo tranquillo a scrivere canzoni e cominciai a lavorare a un musical insieme all’attore Nigel Hawthorne; il titolo era Revolussia - doveva poi diventare un film. Alcune canzoni, tra cui Father and Son, raccontavano di un ragazzo che voleva unirsi alla rivoluzione contro i desideri del padre che lo voleva a lavorare nella fattoria di famiglia. Ovviamente era una metafora contro l’establishment, contro il big father che dice sempre no, espressione del conflitto generazionale. La mia storia personale è diversa. Mio padre non mi ha mai esortato a rallentare e metter su famiglia. Nel 1970 ero già a Los Angeles...".

Non si preoccupò neanche quando il successo, dopo Tea for the Tillerman, divenne così invadente?
"Nessuno la prese come una condanna ma come un privilegio. Tutti si complimentarono con me, mio padre disse che in qualche modo se lo aspettava. Ma certamente quel disco cambiò molte cose, anche per la mia famiglia; mio fratello maggiore, David, che fino a quel momento aveva esercitato un ruolo paterno, si trovò a gestire una popstar".  

Lei aveva solo ventidue anni all’epoca, ma incredibilmente Tea for the Tillerman esprime i sentimenti di un uomo saggio e maturo. Riuscì a restare con i piedi per terra anche quando il disco la trasformò in un idolo pop?
"Fu un’impresa, ma era quello che mi ero proposto. Sapevo esattamente a cosa andavo incontro, sapevo che il mondo dello spettacolo poteva essere spietato, imparai a tirarmi indietro quando le cose prendevano una brutta piega. Volevo rimanere fedele ai miei principi, alle parole che avevo scritto, a costo di scomparire dalla scena proprio nel momento di massimo successo. E infatti quando la pressione divenne enorme, dopo Teaser and the Firecat e Catch Bull at Four, mi ritirai in Giamaica per incidere Foreigner, cambiando completamente musicisti e produttore. Lo chiamai così, "Straniero", perché avevo bisogno di tornare a essere uno qualunque, di evolvermi e non diventare schiavo del successo".

La canzone di Tea for the Tillerman che è cambiata più radicalmente nella riedizione dell’album è Wild World - bellissima, il nuovo arrangiamento fa pensare a Cat Stevens che incontra Brecht & Weill, Randy Newman, Dr. John...
"...e Tom Waits, se mi permette di aggiungere un nome. Ho pensato agli anni Quaranta, è stato come rivedere Casablanca; non ti stanchi mai di quei film in bianco e nero. Mi sembrava noioso riproporre il solito ritornello. Wild World è una canzone simbolo, volevo spogliarla da ogni retorica".

Com’è il mondo cinquant’anni dopo? Sempre selvaggio o ancora più buio?
"Mi fa questa domanda perché già conosce la risposta! Io vengo da un tempo in cui l’ingegno umano era il motore del mondo. Oggi, paradossalmente, le nostre possibilità sembrano limitate dalla tecnologia, e questo è terribile e preoccupante. Il problema è la tecnologia, i ragazzi non l’hanno ancora capito. Durante il lockdown il mondo sembra aver compreso quanto sia importante stare insieme, parlare, toccarsi. C’era bisogno di una pandemia per capirlo?".

Ci sono stati momenti, in questi anni dopo la conversione, in cui la sua famiglia l’ha incoraggiata a riprendere la sua carriera di cantante pop a tempo pieno?
"Non avrebbero potuto, perché era una decisione che spettava solo a me. È stato un percorso personale, non l’avrei fatto se non fossi stato sicuro al cento per cento di avere qualcosa da offrire, se non avessi avuto l’urgenza di comunicare con il pubblico. La saggezza non è figlia dell’età ma dell’esperienza".

Quand’è stato che Yusuf Islam si è riconciliato con Cat Stevens e le sue canzoni?
"Mi convertii all’Islam prima della rivoluzione iraniana, un periodo molto importante e delicato, avevo bisogno di valori che l’educazione religiosa - avevo frequentato la scuola cattolica sebbene mio padre fosse greco-ortodosso e mia madre battista - non mi aveva dato. Per me fu una sorta di illuminazione, il pop a un certo punto non è più stato una necessità, concentrato com’ero a dare un senso alla mia esistenza. Il mio unico interesse era la relazione tra l’uomo, l’Islam e la musica".

Era giunto a un punto in cui l’adulazione le risultava destabilizzante e insopportabile?
"Avevo bisogno di approfondire la mia ricerca spirituale, dovevo fare qualcosa per me stesso, venire a patti con la mia insoddisfazione. Ho dovuto prendere le distanze dalla vita che facevo come cantante di successo per potermi guardare dal di fuori".

Anche l’immagine di copertina dell’album è stata ritoccata. Chi è Tillerman nel 2020?
"Mi è sempre piaciuto giocare con le immagini e i colori, la mia casa discografica lo trovava un po’ infantile, ma mi lasciava fare. Ho immaginato che Tillerman abbia viaggiato nello spazio e cinquant’anni dopo abbia trovato il mondo molto, molto cambiato...".

L’album uscì in un periodo in cui la musica era davvero capace di unire la gente, dopo Woodstock e i  "viaggi" dei figli dei fiori. La musica ha ancora questo potere?
"Il compito della musica dovrebbe essere quello di aggregare in un luogo ideale dove condividere emozioni e sentimenti. Sappiamo, da come ha reagito alla pandemia e agli episodi di razzismo che ancora flagellano gli Stati Uniti, che il suo potenziale è ancora enorme".