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 2020  settembre 15 Martedì calendario

L’elettricità che fa bene al cervello

L’ultimo in ordine di tempo è uno studio dell’Università di Ginevra sulla dislessia apparso su «Plos Biology». Le evidenze dell’efficacia della stimolazione cerebrale, anche quella non invasiva, si vanno accumulando e molti studi aumentano le conoscenze sul funzionamento del cervello e sui meccanismi alla base della plasticità della corteccia.Nel caso dello studio su «Plos» il miglioramento della pronuncia nei dislessici sarebbe la prova del ruolo nell’elaborazione fonemica di una specifica attività oscillatoria: è quella nella banda gamma, al di sopra dei 25 hertz. Queste conoscenze consentono, a loro volta, miglioramenti tecnologici a scopo terapeutico. Un esempio è la possibilità di effettuare una stimolazione che si autoregola a seconda dello stato del cervello del paziente, attraverso un processo a circuito chiuso, il «closed loop».«L’applicazione automatica di stimolazioni localizzate, solo quando viene registrata una certa oscillazione patologica, ad esempio la banda beta, tra 13 e 20 Hertz, nel Parkinson, non è un miraggio lontano», dice Simone Rossi, neurofisiologo del Brain Investigation & Neuromodulation Lab (Si-BIN Lab) dell’Università di Siena, autore del libro «Il cervello elettrico», edito da Raffaello Cortina: ripercorrendo un’avvincente impresa scientifica che lo vede tra i protagonisti, descrive una serie di innovazioni che vanno verso una sempre minore invasività e una sempre maggiore precisione. Un esempio – ci dice – «è Stentrode, crasi di stent ed electrode: si tratta di un mini-stent endovascolare provvisto di elettrodi che misurano l’attività elettrica e possono fornire stimolazioni localizzate al bisogno».Le metodiche di stimolazione interferiscono con l’attività elettrica del cervello, ma non se ne conoscono con precisione tutti gli effetti. Mancano ancora molte conoscenze a livello sinaptico-molecolare, neurofisiologico e anche anatomofunzionale. «Serve più ricerca», dice Rossi. Nel frattempo i disturbi trattabili con la stimolazione sono sempre di più e sono quelli attribuibili a disfunzioni neuronali, oggi separati in due discipline, la neurologia e la psichiatria. È una separazione che – per Rossi – non ha molto senso, alla luce delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze, anche nel campo dell’elettricità. Che è un approccio che sta integrando, e talvolta sostituendo, quelli neuropsicofarmacologici, con una certa e comprensibile apprensione da parte del mondo pharma, dove il fatturato delle sostanze psicotrope è in crescita.Risultati sorprendenti, se si pensa all’evoluzione in corso: il primo prototipo di stimolatore viene presentato da Anthony Barker a Londra nel 1985 e già nel 1996 Alvaro Pascual Leone di Harvard firma su «Lancet» il primo studio sulla sua applicazione clinica nella depressione farmacoresistente. Oggi si va anche oltre la comunicazione neurale: «Il lieve aumento del flusso ematico osservato nelle aree stimolate ci ha portato a ipotizzarne un uso in neuroncologia», racconta Rossi, i cui risultati su pazienti con glioblastoma sono apparsi su «Science Advance».«Scoprimmo che la perfusione nella parte solida del tumore, quella in crescita, si riduce con sedute di stimolazione elettrica transcranica». Questa scoperta permetterà, forse, di ridurre la massa da asportare chirurgicamente o di aumentare il permanere di certi farmaci in specifiche aree.Attenzione, però, alle false promesse, mette in guardia il neurofisiologo, che è tra i relatori delle linee guida internazionali per un uso basato sulle evidenze della stimolazione magnetica transcranica, la Tms. È anche primo autore del loro aggiornamento in via di pubblicazione, di cui ci anticipa le due novità: «Il rischio di indurre crisi epilettiche con la stimolazione è trascurabile e, inoltre, in seguito alle evidenze che una stimolazione prolungata sia clinicamente più efficace, non sarà più obbligatorio il rispetto dei vecchi parametri, come intensità, frequenza e durata. Sarà il ricercatore a stabilirli di volta in volta, garantendo così la sicurezza dell’intervento».