Corriere della Sera, 14 settembre 2020
Sulla nuova serie di Perry Mason
Non è semplice prendere un monumento del racconto poliziesco e trasformarlo in qualcosa di diverso; soprattutto se la riverniciata riguarda proprio i tratti costitutivi del personaggio principale e il contesto nel quale lo vediamo muoversi. Eppure, il «Perry Mason» di Hbo (Sky Atlantic) non sfigura davanti all’illustre predecessore, a patto di accettare l’idea dell’inedito.
La serie della cable tv americana vuole assomigliare a una sorta di prequel, di antefatto della vita di Mason, qui nei panni di un detective privato prima di diventare l’avvocato più famoso degli schermi televisivi. Siamo nella Los Angeles dei primi anni 30, con l’industria del cinema in ascesa a fare da contraltare alla Grande Depressione che regna nel Paese; il giovane Mason (Matthew Rhys) indaga sul misterioso omicidio di un bambino, ritrovato con le palpebre cucite con un filo.
Come molte serie Hbo, «Perry Mason» cattura per la molteplicità dei piani di lettura e della profondità dell’affresco. Superate le incertezze iniziali, ci inoltriamo in un viaggio alla scoperta non solo della risoluzione del caso, ma dell’intimità del detective e di un sistema alquanto perverso e immorale. Dimentichiamo il Perry Mason televisivo di Raymond Burr, rassicurante e vigoroso, adattamento dei romanzi di Erle Stanley Gardner; nella figura esile di Rhys scorgiamo un protagonista fragile, con gli incubi di un veterano della Prima guerra mondiale, con problemi famigliari e una certa attrazione per l’alcol.
Non un anti-eroe, ma un aspirante eroe imperfetto, pieno di difetti e intuizioni. Immerso in atmosfere noir alla «True Detective» (c’è lo zampino di Nic Pizzolatto, mentre la sceneggiatura è firmata da Ron Fitzgerald e Rolin Jones), «Perry Mason» è un procedural atipico che affonda le mani in un momento oscuro della storia nazionale americana, con l’idea – per dirla con la serie – di esorcizzare «la sofferenza e non la colpa».