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 2020  settembre 14 Lunedì calendario

Ritratto della regina Vittoria

Lytton Strachey, nato a Londra nel 1880, morto a Hungerford nel 1932, fu il più grande biografo della cultura europea moderna. Era amico di Virginia Woolf e di John Maynard Keynes. Scrisse Eminenti vittoriani, Elisabetta e il conte di Essex, Voltaire, tutti ripubblicati ora dall’editore Castelvecchi, ma La Regina Vittoria, composto nel 1921, è il più piacevole dei suoi libri: attrae, affascina, incanta, come pochissimi testi di storia. Se vogliamo trovargli un affine, o un vicino, dobbiamo risalire molti secoli indietro: al più grande biografo di tutti i tempi: Plutarco.
Nel palazzo di Kensington, il 24 maggio 1819, nacque Alessandrina Victoria, nell’infanzia chiamata Drina, erede dei Sassonia-Coburgo. Era una bambina grassa: con denti e occhi azzurri sporgenti e capelli biondi. Ogni domenica, con attenzione e devozione, seguiva il sermone del sacerdote. Era espansiva e tenera, e amava appassionatamente la governante, la baronessa Lehzen. Quando ebbe sette anni, il re Giorgio IV le chiese: «Qual è la vostra aria preferita?» La devota bambina rispose: «Dio salvi il Re». Vittoria non amava studiare l’alfabeto, e, fino a tarda età, non imparò mai perfettamente l’inglese: faceva grossi errori e sbagli di stile. Raggiunti gli undici anni, i vescovi di Londra la esaminarono con ammirazione: aveva una perfetta conoscenza della religione cristiana e della Chiesa d’Inghilterra. Proclamò: «Io sarò buona». Fece la cresima, «con la ferma volontà di diventare una vera cristiana».
Crebbe. Messe da parte le innumerevoli bambole, venne il tempo della musica e della danza. Era trilingue, sebbene non avesse appreso con proprietà l’inglese. Ma leggeva con entusiasmo le lettere di Madame de Sevigné e diceva: «Quanto è naturale! Come è piena di naïveté!». Tranne Walter Scott, i romanzi le erano proibiti: dubito che abbia mai sfiorato quelli di Dickens – per quanto fossero immensamente popolari nel paese. Continuava a dormire nella stanza della madre: non aveva luoghi suoi. Imparò i gorgheggi dell’opera italiana, e la danza, che amava come una vera ballerina. Cominciò ad andare all’opera. Amò moltissimo Anna Bolena di Donizetti, dove il primo tenore italiano cantava in modo che le parve incomparabile.
Aveva compiuto diciassette anni, allorché arrivarono i cugini tedeschi, tra i quali Alberto di Sassonia- Coburgo, che mise in ombra gli altri. Furono gentilissimi, e lei ricambiò gentilezza con gentilezza. Lo zio Ernesto del Belgio le regalò un delizioso pappagallo addomesticato e coloratissimo, che restava immobile sul dito, senza emettere un verso. Nell’occasione del banchetto per il compleanno del re, Vittoria sedette con grazia davanti a lui; e tutti i cortigiani fissarono questa piccola e sconosciuta figura, che avrebbe dominato l’Inghilterra per quasi settant’anni. Dalla mattina alla sera, Vittoria era di buon umore. Tutto le piaceva. Rideva sul serio, aprendo la bocca ampiamente, sebbene le sue robuste gengive non fossero affatto graziose.
Quando il re Guglielmo morì, il 20 giugno 1837, Vittoria diventò finalmente regina, e tenne il suo primo consiglio della Corona. Con gli occhi sporgenti, e la bocca appena socchiusa, non tremò un istante, perché non aveva paura di nulla. «Sono ancora molto giovane», scrisse, «e inesperta». Il primo ministro Lord Melbourne si presentò in gran tenuta di corte, e le baciò elegantemente la mano.
Lord Melbourne era un uomo ricco, colto, civile, conservatore, scettico, ma dotato di una profonda cultura teologica. Vittoria odiava i Thory, e il loro capo, sir Robert Peel le riusciva antipaticissimo. Fece portare il suo letto via dalla stanza della madre, per rivendicare la propria autonomia. Si trasferì con grande gioia dal palazzo di Kensington a quello di Buckingham — la sua vera casa. Scomparsi il re Guglielmo e il duca di York, Vittoria fu riconosciuta dal Parlamento come «erede presunta», «reggente designata», e infine regina. Ogni volta che attraversava le strade di Londra in carrozza, tutti applaudivano, ed era avvolta da una folla esultante. Aveva a che fare col primo ministro – Lord Melbourne, un uomo solidamente formato, che conosceva bene i padri della Chiesa. Era bello, discreto, e governava con straordinario distacco. Non credeva nel progresso. Leggeva tutti i libri importanti, con la sua rara cultura teologica. In un batter d’occhi diventò il consigliere segreto della sua ragazza- regina; e le raccontava la sua vita e le più divertenti e complicate storie del Settecento. Espansiva e tenera, Vittoria lo amava, come amava la sua governante tedesca, l’imperiosa e puntigliosa baronessa Lehzen.
Era molto ricca. Aveva un’entrata di quattrocentododicimila sterline all’anno. Il suo caro Lord Melbourne, Presidente del Consiglio, non portava orologi al polso: o perché non gli importava nulla del tempo, che gli era del tutto indifferente, o perché lo esecrava. La sera, prima di pranzo, giocava a volano con la regina. Come lei, preferiva l’ Amleto – splendidamente recitato – a Re Lear. A tutti i consigli dello zio Leopoldo del Belgio, Vittoria rispondeva con un’inflessibile ferocia. Era ostinata, dispotica ed egoista. Scrisse sul diario: «Mi dispiace moltissimo di perdere Lord Melbourne anche una sera soltanto».Tutti i parenti e gli amici pretendevano che si sposasse al più presto. Non potevano immaginare una regina vergine. Lo zio Leopoldo del Belgio voleva che sposasse Alberto di Coburgo, suo cugino. Insistette a lungo perché lo scegliesse. Lei non voleva, resistette. Alberto non le piaceva, e poi aveva una pessima idea del matrimonio. Ma non appena Alberto venne a Windsor, tutto cambiò. Chiacchierarono a lungo, flirtarono, e cavalcarono insieme nei fitti boschi. Vittoria disse a Lord Melbourne: «Sapete? Ho deciso di sposare Alberto». Sorridendo, Lord Melbourne rispose: «Davvero?».
Alberto aveva tre mesi meno di Vittoria, era un ragazzo piacevole, sveglio e intelligente. Aveva studiato la filosofia e la letteratura tedesca, specialmente Klopstock. Non so se conoscesse Goethe. Fece un lungo viaggio in Italia: ammirò Firenze, dove, come Leopardi, conversò con Gino Capponi, ma Roma non gli piacque affatto, chissà perché. Intanto Vittoria si mise a letto con la febbre, temendo di associare il proprio trono a un estraneo. Il matrimonio fu celebrato il 10 febbraio 1840, e la coppia partì verso Windsor.
Non saprei dire se il matrimonio fosse felice o infelice. Alberto – così dissero i londinesi – assomigliava a un «tenore straniero». Sapeva di essere più intelligente della moglie: ma, mentre Vittoria ballava tutta la notte, già alle nove di sera lui sonnecchiava sopra un divano, sfinito. Detestava Londra, che Vittoria adorava. Cominciò a lavorare moltissimo: si alzava dal letto molto prima della moglie, e lavorava fin dalle prime luci dell’alba. Presto diventò di fatto il re d’Inghilterra.
Vittoria non era più la discepola del primo ministro, ma la moglie devota e obbediente del marito. Il principe ebbe l’idea della Grande Esposizione, dove ogni paese doveva esporre i suoi prodotti. L’enorme edificio dell’Esposizione si levò sempre più in alto: perfino Dostoevskij l’ammirò, sia pure pieno di odio.Vittoria compiva i suoi doveri di regina con una specie di estasi, di meraviglia e di gratitudine verso Dio. Sentì che la festa era stata «il più bel giorno della mia vita». Da tutte le parti del mondo arrivarono nove milioni di persone, senza che si verificasse un solo incidente. Nella casa reale c’era prodigalità, fasto e spreco. Alberto intervenne: duro, severo, rigoroso. Si occupava di politica estera: come a Parigi avvenne il colpo di stato di Napoleone III, in Inghilterra si diffuse uno strano rancore contro di lui. Poi venne accusato di essere troppo filotedesco.
Scoprì l’importanza di trattenere la parte solida degli escrementi rilasciando i liquidi per irrigare i campi: peccato che la grande invenzione risultasse impraticabile. Poi, come Vittoria, venne attratto dal fascino di Napoleone III e dell’imperatrice Eugenia. «In loro», dissero, «c’era qualcosa di affascinante, malinconico ed attraente».
Alberto lavorava in modo ossessivo. Soffriva d’insonnia: ebbe un attacco di reumatismi, era pallido e stanco; un raffreddore, poi un attacco di febbre tifoidea: gli furono fatali. Comprese di essere perduto, e morì, a soli quarantadue anni. Quando scomparve, Vittoria si coprì con un fittissimo crespo nero, e costruì un Mausoleo, in bronzo dorato, che costò duecentomila sterline. Fece scrivere una biografia completissima. L’Albert Hall sorse nel giardino di Kensington, mentre il poeta ufficiale, Alfred Tennyson, compose un elogio – che immaginava (lui solo) ispiratissimo.
L’allegria di Vittoria, chiusa tristemente nel Palazzo reale, non tornò più, benché restasse sempre al servizio del paese. Fronteggiò la Danimarca, e soprattutto Bismarck. La sua politica diventò dura e violenta. Solo allora, forse, diventò la grande regina. Disraeli – il nuovo primo ministro, un ebreo di origine italiana – mandava a Vittoria fiori, soprattutto primule: «Sotto lo scettro di Vostra Maestà ho trovato l’isola incantata». Quando Vittoria ricambiò il dono delle primule, Disraeli rispose che quelle primule erano molto «più preziose dei rubini», perché «provengono da una sovrana che adoro». «Nel cuore della notte» scrisse, «mi è venuto in mente che tutto era un incantesimo, inventato da un’altra sovrana: la regina Titania»: quella della Tempesta di Shakespeare. In Parlamento lanciò l’idea di proclamare Vittoria «Imperatrice delle Indie», ciò che le piacque moltissimo. Vittoria si informava della guerra in Sudafrica: odiava ferocemente i Boeri, e chiedeva ai suoi generali tutti i particolari delle battaglie. Si chiuse tra le lenzuola, si mise a letto per due giorni, così da adempiere i suoi doveri di regina.
Dopo gli ottant’anni l’intelligenza di Vittoria svanì: la memoria – la sua meravigliosa memoria – la lasciò; e manifestò una certa tendenza all’afasia. Il lavoro quotidiano seguitò come prima, anzi aumentò. Il 14 gennaio 1901 si informò ancora su tutti i particolari della guerra. Poi fu assalita da una sincope. I medici ammisero che le sue condizioni erano disperate. Per due giorni adempì ancora con precisione i suoi doveri di regina. Il 22 gennaio morì. Il vecchio, grande orologio a ripetizione regalatole dal padre smise di battere nel suo scudo di tartaruga.Con lei scomparve la cosiddetta età vittoriana: settant’anni che aveva riempito con i suoi denti e occhi sporgenti. Quei battiti di tartaruga conclusero per sempre l’Ottocento: cominciò il futuro; e ora viviamo in un tempo ignoto, mentre Joseph Roth – ebreo, cattolico, protestante, grandissimo romanziere profetico – continua a passeggiare velocemente per le vie di Parigi.