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 2020  settembre 14 Lunedì calendario

Biografia di Ian McKellen

«Non mi daranno mai l’Oscar: sono inglese e sono gay». Ian McKellen rispose così a Barbara Walters, che lo intervistava la sera prima della cerimonia, dove infatti non vinse. Era stato candidato per Demoni e dei, e interpretava James Whale, il regista di Frankenstein: era magnifico, come sempre, ma quello era l’anno di La vita è bella, e fu Roberto Benigni a essere premiato come miglior attore protagonista. Barbara Walters rispose con un sorriso alla battuta di Ian, e cambiò argomento: fu lui a ridere, a quel punto, quell’atteggiamento dimostrava che aveva perfettamente ragione. Poi riprese a parlare con la solita, impeccabile professionalità, e il carisma di chi può permettersi di alternare interpretazioni shakespeariane rimaste nella storia a partecipazioni a film popolari, dove è ugualmente bravo: anche nelle pellicole più trascurabili non dà mai l’impressione di averle scelte per motivi commerciali, e hai l’impressione che sia entusiasta di divenire un personaggio che esiste solo sullo schermo, ma solo grazie a lui acquista sostanza.
«Un interprete deve dare il proprio meglio in ogni occasione», mi spiegò una volta, con aria stupita, «non esiste testo teatrale o copione che non contenga una verità. A noi spetta esaltare quell’elemento: il lavoro dell’attore diventa grande solo se affrontato con umiltà e partecipazione». Fece una lunga pausa e socchiuse appena gli occhi, suggerendo e pregustando l’entusiasmo: anche nel privato è un grande attore. È un uomo estremamente affascinante, Ian, con una voce profonda, due bellissimi occhi azzurri e un grande senso dell’umorismo. È un affabulatore seducente e sempre divertente, e i momenti in cui sembra cedere alla gigioneria sono in realtà aspetti del suo entusiasmo e della sua generosità: quando venne alla Festa del Cinema si sdraiò improvvisamente per terra, salutando i fotografi con un grande cappello bianco. Francesco Zippel, che curava l’evento, e il sottoscritto, ci trovammo completamente spiazzati, ma poi ci lasciammo trascinare e partecipammo al gioco.
Quella stessa sera Roberto Cicutto e Piero Maccarinelli organizzarono una cena in suo onore e Ian recitò solo per noi un brano del Tommaso Moro sul rapporto tra verità e amicizia: «È un dramma attribuito a Shakespeare», spiegò, «e gli esperti ancora dibattono sulla paternità, ma io ritengo che sia suo e ne ha tutta la grandezza». Poi fece una riflessione sul fatto che la personalità inglese più celebre e amata di tutti i tempi fosse anche un attore: «Shakespeare recitava, non dimentichiamolo mai. E sul palcoscenico ha imparato tutti i trucchi per commuovere, sedurre e far riflettere. Non era semplicemente l’interprete di quanto scriveva, ma un genio che recitando arricchiva e rielaborava la sua stessa intuizione». Fu una serata incantata, nella quale mostrò altri tratti della sua personalità, a cominciare dall’amore per la buona cucina e il buon vino. E una passione per la commedia: «Amo chi mi fa ridere e tutto ciò che ci dimostra che l’esistenza non è solo dolore. Tra i grandi comici prediligo Jacques Tati, così umano e raffinato».
Ha compiuto da poco 81 anni, ma continua ad avere l’entusiasmo e la curiosità di un bambino, eppure la vita gli ha riservato ogni tipo di esperienza. È nato a Burnley, nel Lancashire, all’inizio della guerra mondiale, e soltanto alla fine del conflitto si è reso conto che quel mondo segnato da esplosioni, paura e violenza non era la normalità. Sia i nonni sia i bisnonni erano reverendi protestanti, noti per la potenza delle loro omelie: il fascino per la rappresentazione e per il potere della parola nasce tra i banchi delle chiese. Da allora si è allontanato dall’osservanza, che peraltro «non è mai stata del tutto ortodossa». Ha perso la madre a 12 anni e il padre a 24: quando decise di vivere apertamente la propria omosessualità, la madre adottiva Gladys lo ha abbracciato: «Io ero senza parole, ma lei era felice che non vivessi più nella menzogna».
Ha debuttato nel teatro giovanissimo, duettando sin dai primi spettacoli con interpreti del calibro di Derek Jacobi e Judi Dench, che si accorsero immediatamente di trovarsi di fronte a un talento formidabile. Come se ne accorse Trevor Nunn, che lo ha diretto in spettacoli divenuti punti di riferimento nel teatro inglese. Indimenticabile è stato il suo Salieri nella versione teatrale di Amadeus, ma i ruoli nei ha quali tuttora si identifica maggiormente sono quelli shakespeariani, specie quelli della maturità quali Prospero, Re Lear e Riccardo III, recitato magnificamente anche sullo schermo.
Quando ho avuto modo di parlargli dell’intervista con Barbara Walters mi disse che prima di lui erano stati ovviamente molti gli interpreti omosessuali che avevano vinto l’Oscar, ma lui, a differenza di tutti gli altri, è sempre stato apertamente gay, diventando un punto di riferimento per tutta la comunità: a Hollywood ciò continuava a rappresentare un elemento di disordine anche in quegli anni. In realtà la decisione di parlarne pubblicamente avvenne nel 1988, quando partecipò a una trasmissione radio insieme al conservatore Peregrine Whorsthorne, che ne ignorava, come il pubblico, gli orientamenti sessuali: «Uno dei pochi rimpianti della mia vita è non essermi dedicato alla politica», dichiarò in seguito, «per poter difendere i diritti degli omosessuali».
In realtà ha fatto molto di più, utilizzando la propria popolarità per ogni possibile battaglia, ma ci tiene a specificare: «C’è la tendenza a pensare che io sia una specie di leader dei diritti gay, ma per quanto mi riguarda mi accontento di essere un soldato semplice». Ugualmente significativo il suo attivismo per cause di beneficenza, nelle quali ha coinvolto molti tra i migliori attori britannici: «Forse è per questo che sono stato nominato cavaliere», racconta, con un pizzico di vanità, ma nulla lo entusiasma come diventare qualcun altro sullo schermo o in palcoscenico, specie quando il personaggio è molto distante da sé, come ad esempio il nazista di Un ragazzo sveglio. «Rimasi molto colpito dal bellissimo racconto di Stephen King, e cercai di capire cosa si annida nella psiche di un criminale che si nasconde per molti anni e viene scoperto dalla persona più inaspettata: un bambino».
Il grande pubblico lo conosce soprattutto per il ruolo di Gandalf nel Signore degli anelli, grazie al quale ebbe una seconda candidatura agli Oscar, e quello di Magneto nella serie X-Men. Quando gli chiedo del primo mi parla della difficoltà di pronunciare le battute più importanti davanti a una palla da tennis, che sostituiva il suo interlocutore prima degli effetti speciali. Recitò così il celebre «un mago non è mai in ritardo o in anticipo, arriva nel momento esatto in cui c’è bisogno». A volte ricorda con divertimento il fatto che da piccolo volesse diventare giornalista, «credevo di non avere alcun talento, come attore, e sapevo quanto si può soffrire ad attendere chiamate che non arrivano mai da parte di registi e produttori. Per un po’ ho pensato di diventare uno chef, ma poi ho capito che anche in quello dovevo uscire allo scoperto, sapendo che la recitazione è un processo del tutto personale».
Ritorna spesso sul parallelismo con la scelta di rendere pubblica la propria sessualità: «Devi cercare di capire che ruolo vuoi interpretare nella vita: l’esistenza ti offre molto più di quello che ti dice l’apparenza. Scopri quale è la tua parte e poi interpretala». Ripensando ai nonni e bisnonni reverendi si entusiasma per ogni tipo di liturgia, pure definendosi ateo: «La rappresentazione ha già in sé qualcosa di sacro». Poi capovolge la prospettiva, e spiega che «il lavoro dell’artista ha qualcosa di divino, perché crea nuovi mondi dal nulla. Questo è ancora più mirabile se si pensa che noi umani siamo creature fragili, la cui essenza per dirla con Shakespeare, è della materia di cui sono fatti i sogni».