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 2020  settembre 14 Lunedì calendario

Davigo pensionato manda in tilt il Csm

Impegnato da un anno a diradare i miasmi del caso Palamara, il Consiglio superiore della magistratura si prepara a un nuovo psicodramma. Protagonista Piercamillo Davigo. Che non è solo l’eroe di Tangentopoli, ma anche il consigliere più votato dai magistrati (2.522 voti su 8mila), l’architrave della maggioranza che ha deciso con piglio moralizzatore le più importanti nomine dopo lo scandalo, e infine uno dei giudici del maxiprocesso disciplinare a Palamara&C. che domani entra nel vivo, annunciandosi come una Mani Pulite (Norimberga, per qualcuno) della magistratura. Il 20 ottobre Davigo compie 70 anni e va in pensione dopo 42 di onorato servizio. Un magistrato eletto al Csm può restare anche quando non è più magistrato? Caso semplice in apparenza. In realtà giuridicamente e politicamente complesso.
La Costituzione prevede che il Csm sia composto per due terzi da magistrati e per un terzo da professori o avvocati eletti dal Parlamento. Non contempla l’ipotesi di un magistrato che va in pensione durante il mandato. Né esistono precedenti: mai un magistrato si era fatto eleggere al Csm in prossimità della pensione. Due anni fa se ne parlò quando Davigo si candidò al Csm (non voleva, fu costretto dai colleghi della corrente Autonomia e Indipendenza). Salvo l’interesse dell’Unione Camere Penali, il plebiscito elettorale aveva silenziato la questione. Che però è stata squadernata a fine luglio da Questione Giustizia, rivista di Magistratura Democratica (corrente di sinistra), per mano del direttore Nello Rossi, già componente del Csm.
L’articolo, puntigliosamente argomentato, sosteneva che la permanenza di Davigo sarebbe «giuridicamente insostenibile» e «in netto contrasto con la legalità», oltre che «sbagliata e incomprensibile» perché creerebbe un «terzo genere» di membro del Csm, «il non più magistrato».
Conseguenze: sorpresa e rumore sia tra le toghe progressiste (non tutte d’accordo) sia nel Csm. E fazioni in fibrillazione. Dopo un mese di surplace degno di Maspes e Gaiardoni (i campioni del ciclismo su pista in grado di sfidarsi da fermi per ore), è stato lo stesso Davigo a lanciare la volata. Nei giorni scorsi ha inviato una lettera alla commissione titoli del Csm esponendo la questione e chiedendo che sia risolta. A suo favore, naturalmente, perché nel frattempo c’ha preso gusto, e di mollare il Csm non ha nessuna intenzione. Il 19 maggio, in tv da Floris, liquidò la faccenda così: «L’articolo 104 della Costituzione dice che i membri del Csm durano in carica 4 anni. E l’età non c’entra niente. A mio giudizio non dovrei lasciare l’incarico».
I pro Davigo dicono: il possesso del requisito (magistrato in funzione) è obbligatorio solo al momento dell’elezione; non importa se si perde in corso di mandato. Gli anti Davigo obiettano: per poter rappresentare i suoi pari, tanto più se giudice disciplinare, il membro del Csm deve continuare a essere magistrato per tutto il mandato.
Con la mossa di Davigo, la questione approda ufficialmente nell’agenda del Csm. La commissione titoli deve istruirla. Davigo ne fa parte e ovviamente si asterrà. Dei tre componenti chiamati a decidere, due potrebbero essere magistrati della corrente Magistratura Indipendente, che Davigo lasciò polemicamente nel 2015 e nel Csm vota sistematicamente in modo contrario. Il terzo è il docente Alberto Benedetti, eletto dal Parlamento su indicazione del M5S, che con Davigo ha tra l’altro votato Prestipino procuratore di Roma.
Probabile una spaccatura. Poi deciderà il plenum. Se Davigo resta nel Csm, inevitabili i tempi supplementari giudiziari. Potrebbe far ricorso Carmelo Celentano, magistrato di Cassazione non eletto nel 2018, che dovrebbe subentrare a Davigo. Farebbero certamente ricorso Palamara, Ferri e gli altri convitati dell’hotel Champagne. Che già hanno invano provato a ricusare Davigo. Se condannati da lui, invocherebbero la «illegittima costituzione del giudice», fonte di nullità della sentenza.
Motivo per cui il caso è osservato con attenzione, se non con apprensione, sia dalla Procura generale della Cassazione, che sta istruendo (non senza tensioni) i processi disciplinari, sia dal Quirinale. Il capo dello Stato è presidente di diritto del Csm, e il suo ombrello è stato decisivo per evitarne lo scioglimento, un anno fa. Ma c’è un ulteriore dettaglio. Il suo consigliere giuridico, Stefano Erbani, nel 2011 fu estensore, nell’ufficio studi del Csm, di un parere che i pro Davigo hanno scoperto e rispolverato. Il caso cui si riferiva è diverso, ma con qualche assonanza. Il che lo rende, ai loro occhi, la carta decisiva per risolvere la contesa.