Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 14 Lunedì calendario

Biografia di Josef Bican

A vevo poco più di sei anni e non mancavo mai quando giocava il mio papà, magari scappavo, ma mamma Ludmilla sapeva dove potermi trovare. Lui giocava all’attacco e faceva un mucchio di gol, era il mio idolo. Però quel giorno non c’ero, non ricordo come mai, ma forse è stato meglio così.
Ecco come è andata, papà Frantisek torna a casa dalla Grande Guerra senza neppure un graffio e decide di lasciare Sedlice in Boemia per cercare lavoro a Vienna, oltre due milioni di anime, la capitale di tutto. Cechi, polacchi, boemi, serbi, croati e ucraini sono quasi il cinquanta per cento degli abitanti, Freud, Klimt, una polveriera di intuizioni e rivolgimenti sociali, tutto è arte, il calcio è arte. Papà Frantisek trova subito lavoro come operaio, forte e robusto come in campo dove gioca in prima divisione per l’Herta, la squadra del quartiere Favoriten, il suo. Sta davanti e prende un sacco di botte, quel giorno una che gli segna la vita, proprio nel derby contro il Rapid, gli spappolano un rene che gli va in cancrena, non si vuole operare e a trent’anni lascia la terra quando Josef, il secondo dei suoi tre figli, ne ha solo otto. La famiglia già povera, diventa ancora più povera, Josef va in giro scalzo.
Prologo della millesima storia lacrimosa del povero diavolo che diventa re con il pallone, ma Josef Bican di quei mille è il primo assoluto. Nasce a Vienna il 25 settembre 1913, in strada lo chiamano Pepi, il più grande marcatore di tutti i tempi con 805 gol in competizioni ufficiali e 1468 reti comprese le amichevoli. Per qualcuno ne ha realizzate più di cinquemila. Tutti i primati possibili e immaginabili sono suoi in un’epoca dove le statistiche di ufficiale hanno poco. Ma i record dopo, prima la sua immaginifica e leggendaria esistenza.
Dunque Pepi gioca a calcio, scontato, scalzo ma gioca a calcio, prima nelle giovanili dello Schustek, poi nel Farbenlutz dove un dirigente gli passa sottobanco uno scellino per ogni gol, adesso ha le scarpe ma tutti quegli anni a piedi nudi gli hanno affinato una tecnica superiore e questo gli crea diversi problemi, avverte l’invidia, i compagni lo evitano ma non ne scalfiscono il carattere umile, disponibile, accetta e la mette. Bravo, bravissimo, a 18 anni arrivano quelli del Rapid Vienna, la squadra che gli ha tolto di mezzo il padre, gli offrono il primo contratto da professionista, naturalmente non accetta, è mamma Ludmilla che lo prende per il bavero dell’unica camicia e lo porta in sede a firmare. È il club più importante dell’intera nazione. È come se si sentisse in credito, non è solo la fine del papà o l’estrema indigenza in cui vive la sua famiglia, arriva al Rapid e lo devasta, manda in confusione i tecnici, fa i cento metri in 10 e 8, in pochi mesi il suo stipendio raddoppia, triplica, quadruplica, 600 scellini, di più. E quindi iniziano i problemi perché lo vogliono tutti e a certa gente non si può dire di no, anche se a lui, in realtà, non gli riuscirà mai dire sì.
A vent’anni fa il suo esordio nella nazionale austriaca, il Wunderteam, il massimo in Europa, gioca il Mondiale del ’34 in Italia, l’SK Admira Vienna gli offre un ingaggio stratosferico, firma, non vedeva l’ora di lasciare il Rapid, rivince il campionato, titolo di cannoniere sempre suo. Fenomeno, i dirigenti dell’Admira finita la partita chiudono i cancelli e mezz’ora dopo li riaprono con un nuovo ingresso a pagamento per vederlo mentre mette in fila le bottiglie sulla traversa e le colpisce una ad una da fuori area. Ma quelli del Rapid vogliono fargliela pagare, tirano in piedi una campagna denigratoria, lo chiamano Il Cinico e in campo lo menano senza ritegno. Lui non sbaglia un colpo. Adesso è mamma Ludmilla che lo segue su tutti i campi, è la sua guardia del corpo, elude la sorveglianza e prende a ombrellate chi gli picchia il figlio, non vuole faccia la stessa fine del padre. Ma a Vienna sta per succedere l’indescrivibile, la Germania annette l’Austria, lui non accetta di giocare per la nazionale di Adolf Hitler, scappa allo Slavia Praga ma il regime nazista non gli da tregua, con un cavillo burocratico gli impedisce di giocare con quella nazionale il Mondiale del ’38 in Francia, prende un avvocato, gli costa un mucchio di soldi ma vince la causa. Fa il suo esordio con la Cecoslovacchia il 7 agosto 1938 e segna una tripletta alla Svezia.
L’Europa è inquieta, cambiano le carte geografiche, adesso veste la maglia del Protettorato di Boemia e Moravia, il 12 novembre 1939 affronta la Germania, finisce 4-4, tre reti sono sue e diventa il primo calciatore ad aver segnato con tre nazionali diverse e il calciatore più perseguitato dai regimi.
Scoppia la seconda guerra mondiale, Vienna è ormai una degradata periferia del Reich, lui continua a giocare e vince tutti i campionati fino al 1948 quando la Juventus lo chiama per ingaggiarlo. Nuovo problema, amici lo informano che in Italia i comunisti vinceranno le elezioni con l’appoggio dei russi, a Torino lo aspettano con il contratto in mano, sale sul treno ma al confine ci ripensa, niente da fare, ne ha abbastanza, scende e torna in Cecoslovacchia, una trappola. Qui i comunisti con l’appoggio dell’Unione sovietica prendono il potere, rifiuta di aderire al partito, adesso lo chiamano bastardo austriaco, gli vengono sequestrate tutte le proprietà, perfino la casa. Deve ricominciare, costretto a cancellare il passato per sopravvivere, lo Slavia è di tradizione borghese invisa al partito, la lascia e firma per il Sokol Vítkovice elezárny delle acciaierie di Ostrava, la squadra degli operai. Non basta, troppo popolare, deve uscire dalle prime pagine, deve diventare un calciatore come tanti e si trasferisce in seconda divisione allo koda Hradec Králové. E qui succede l’episodio che lo emargina definitivamente. Riceve l’invito a partecipare alla parata del Primo Maggio, rifiuta, caricato a forza su un treno, espulso da Praga. I tifosi accerchiano la locomotiva, non la fanno partire, minacciano uno sciopero generale, finimondo, Pepi si sporge dal finestrino e li convince a liberare le tre guardie che lo scortano: Se non vi calmate mi danno vent’anni di carcere, grida. Ma è costretto a lasciare anche lo koda per la sua fama di uomo libero. Altra causa, la vince, rientra a Praga, torna allo Slavia che adesso si chiama Dynamo, trionfa, segna, ma ormai ha 42 anni, basta Pepi, adesso basta prendere botte e scappare, che vadano tutti al diavolo, povero eri e povero sei tornato. O no?
Nel 1955 il governo gli trova un lavoro da operaio alla stazione ferroviaria di Holeovice, del suo passato di calciatore neppure una riga: «Ho sentito tante volte la teoria secondo la quale era più facile segnare ai miei tempi – ha detto un giorno a un cronista che cercava di capire quale magia ci fosse nelle sue gambe – ma le occasioni sono sempre le stesse e così sarà tra cento anni. Tutti dovrebbero concordare sul fatto che ogni occasione dovrebbe trasformarsi in un gol. Se avevo cinque occasioni facevo cinque gol, se ne avevo sette ne segnavo sette».
I suoi record? Un’altra volta.