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 2020  settembre 14 Lunedì calendario

Intervista a Edna O’Brien


La conversazione con Edna O’Brien è avvenuta in due appuntamenti tra agosto e settembre, per posta elettronica e per videochiamata. L’incontro si sarebbe dovuto tenere interamente di persona nella sua casa a Londra, annullato poi per i rischi legati al Covid. In entrambi i dialoghi O’Brien ha ribadito quanto da ragazzina, in Irlanda, fosse considerata soft in the head, «una bella espressione che significa pazzerella, un po’ stupida, perché cercavo sempre di comporre frasi riguardo a quello che mi succedeva. Non c’erano libri in casa a ispirarmi, però avevo tanta fantasia: raccontavo delle nuvole, del muschio su una pietra, senza concentrarmi sui problemi della mia famiglia perché sarei stata punita. La scrittura si nutriva di una dimensione spirituale che mi spingeva in chiesa, anche quando non c’era messa: ero molto pia. E intanto imparavo la gentilezza».
Chi gliela insegnava?
«Avevamo una fattoria con un lavorante che era arrivato prima che io nascessi. È stata la persona che mi ha mostrato cos’è la gentilezza. Di sabato quando riceveva i soldi della settimana – non veniva pagato un granché – mi comprava una tavoletta di cioccolato e io la mettevo via in una piccola valigia in cui tenevo una bambola e altre piccole cose. Di tanto in tanto davo un morso a questa tavoletta di cioccolato che ovviamente nel frattempo era diventata vecchia e quindi cattiva, perché rimaneva lì per tre o quattro settimane. Era il primo segno di una solitudine che mi avrebbe accompagnato».
Penso al protagonista di «Tante piccole sedie rosse».
«Quella solitudine. Da ragazzina, ecco un altro segno, mi sarebbe piaciuto tantissimo essere abbracciata. Ero e sono ancora in antitesi con me stessa, come se avessi dentro due persone: una che desiderava l’isolamento e l’altra che agognava un abbraccio. Entrambe in attesa di liberazione».
Liberazione. Se penso al laccio che lega «Ragazze di campagna», il suo esordio, a tutte le sue opere fino a «Ragazza», quest’ultimo suo romanzo, mi viene in mente il dovere che Flannery O’Connor imputò alla letteratura: predisporre alla libertà.
«Si dice che i miei racconti abbiano contribuito a liberare le ragazze e le donne irlandesi negli anni Sessanta. Spero ci siano riusciti: penso in particolare a un racconto breve intitolato Una donna scandalosa. In questo testo parlo della nostra terra come di una terra di donne strozzate e sacrificali, cosa che ebbe come risultato la messa al bando dei miei romanzi e revisioni molto dure nei confronti dei miei lavori negli anni successivi. Si potrebbe dire che come persona sono, in una certa maniera, liberata; ma sono anche una creatura figlia del mio ambiente natale e del senso di colpa ereditato, che non abbandona mai nessuno. Forse ha un suo valore nell’essere qualcosa contro cui ribellarsi e su cui scrivere. Tra la trilogia di Ragazze di campagna e Ragazza sono cambiata come persona e le mie preoccupazioni, sommate alla mia indignazione, riguardano ora le barbarie di tutto il mondo. Ragazza e Tante piccole sedie rosse, i miei romanzi più recenti, si preoccupano di temi che vanno oltre le frontiere della mia vita di prima. Oltre al concetto di liberazione, tirerei in causa la necessità di avere consapevolezza rispetto a cosa accade nel mondo. Per liberare ed essere coscienti spesso bisogna essere letterariamente spietati».
E lei lo è stata?
«Da giovane, quando scrissi Ragazze di campagna lo feci quasi da sonnambula. Ero venuta a Londra con mio marito e due bimbi piccoli, avevo ricevuto una commissione di 50 sterline per scrivere un romanzo e anche se spesi prontamente tutti i soldi il romanzo doveva essere scritto. Lasciare l’Irlanda mi ha dato libertà: libertà dalla chiesa, dalla comunità e dalla famiglia. Coraggio. Questo è essere spietata, credo».
Cosa c’era in quell’esordio straordinario, dentro di lei, a parte l’incoscienza?
«La lucidità che la vita non fosse completamente vissuta se non venisse anche scritta. Dovevo scrivere, per essere. Ragazze di campagna viene da qui. E da alcuni libri mancati da lettrice, come Infanzia, Adolescenza, Giovinezza di Tolstoj. Mi avrebbe insegnato talmente tanto».
Che altro?
«La grande libertà legata a quel tempo, il tempo dell’esordio. Significava non dover subire l’ansia dei critici, degli intervistatori e della miriade di interruzioni che mi sono capitate negli anni in cui ho scritto venticinque libri. È un romanzo che mentre lo scrivevo ha reso più rapida e vivida la mia memoria, così che potevo rivivere le immagini e le esperienze accantonate. I campi intorno a casa e gli alberi e i torrenti erano vividi in tutte le stagioni. Il sibilo e il ruggito del vento erano ben chiari nella mia mente, così come la magia di vedere la neve cadere dietro il vetro della finestra e persino le diverse difficoltà domestiche. Non dimenticavo nulla e nelle tre settimane in cui scrissi Ragazze di campagna a mano, dopo aver portato i bambini a scuola, le parole e le emozioni necessarie fluivano spontaneamente. Dico sempre che si scrisse da sé».
E in seguito a quell’opera prima?
«In seguito è arrivata l’esperienza data dall’età, la sensibilità tratta da tutto quello che avevo letto e assorbito. Senza mai smettere di inseguire quella prima dolce noncurante estasi dell’esordio: perché è quell’estasi che permette all’inconscio di essere liberato. Scrivere è un matrimonio tra conscio e inconscio, e poi la riscrittura, che è una parte considerevole, richiede che ci si sposti dalla condizione del sogno a una maggiore severità».
A proposito di severità. Marguerite Yourcenar aspettava con ansia il momento della riscrittura per «flagellare le smancerie»: lavorava a matita. Philip Roth scriveva sempre in piedi, per il mal di schiena e per rinforzare l’implacabilità. Melville passava in rassegna i dati della dogana dove lavorava per scaricare la tensione tra una revisione e l’altra. Edna O’Brien?
«Oddio. Benvenuti nella casa del caos. Primo caos: io scrivo a mano. Secondo caos: in prima stesura scrivo molto rapidamente senza rileggere quello che ho scritto e non curandomi dove lascio il foglio appena riempito. Terzo caos: ho centinaia di pagine distribuite ovunque su innumerevoli ripiani – ho dovuto comprare altri tavoli per farcele stare tutte. Non uso il computer perché lo scrivere è il mio corpo ed è un filo conduttore tra il mio cervello e la mia mano. Ma la questione più importante è essere dura con me stessa».
Lo sosteneva moltissimo Hemingway.
«Quanto mi ha insegnato il lavoro di questo ragazzo. Hemingway smetteva di scrivere nel momento migliore, quando la scrittura fluiva alla sua massima potenza. Addio alle armi è un romanzo straordinario e quando mi sono dedicata alla mia prima opera, oltre a Joyce e agli altri bardi irlandesi, ho riletto quel libro che mi ha insegnato l’importanza della lingua rispetto a una determinata storia. Tuttora mi insegna a farlo. Giorno o notte: essere presenti al libro che si ha in cantiere, usando parole che lo vivifichino. Gorno e notte. Non è un’esistenza particolarmente felice, quella dello scrittore, anche se io sono felice».
In «Ragazza» si percepisce questa felicità del racconto. Felicità intesa anche come giustizia di mettere a nudo una vicenda dolorosa.
«Mettiamola in questi termini: ho dovuto raccontare la storia nel modo più realistico possibile e questo è legittimare, secondo me, i destini umani. La prima mattina in cui scesi dall’aereo ad Abuja, capitale della Nigeria, vidi una folla turbinante di persone, uomini, donne e bambini, come dalla torre di Babele. Ero letteralmente sotto choc, ma in qualche modo mi rimisi in sesto, trovai persone disposte ad aiutarmi, trovai diverse organizzazioni di volontari che mi diedero consigli su dove andare, suore, dottori, specialisti del trauma, madri, nonne e alcune ragazze che erano state abbastanza fortunate da scappare dalle prigioni di Boko Haram, portandosi dietro questo sentimento di terrore».
La paura è l’altro architrave di «Ragazza». Ne diventa però una forza motrice più forte dell’indignazione.
«La paura di quelle ragazze sgorga assieme al loro coraggio indomabile. Il panorama della campagna, apparentemente vuoto, i greggi di capre, i Fulani che guidano il bestiame, le madri che portano i loro figli sulle spalle e la legna nelle loro mani sono state tutte grandi fonti di ispirazione per me. Cancellai la mia vita di Londra o dell’Irlanda e mi immersi completamente in tutto ciò a cui assistevo quotidianamente nelle città, nei villaggi, nelle campagne».
Mi viene così strano immaginarla estranea all’Irlanda.
«Per riuscirci, per cancellare l’Irlanda, ho dovuto mantenermi distante dal mondo che mi circondava. È il motivo per cui gli scrittori diventano eremiti».
E questo è il motivo per cui, forse, è rimasta ancora una volta fuori dalla retorica, dai piagnistei, dalla letteratura che vuole insegnare.
«È una questione di fiducia, fortuna e perseveranza. E di fatica. Per Ragazza tornai dalla Nigeria con venti quaderni scritti a mano e lavorai per tre anni al romanzo. Decisi che raccontare la storia di tante donne attraverso la voce di una donna avrebbe, forse, coinvolto più intimamente i miei lettori. Non era soltanto il mio ricordo, a riportarmi là: era l’appartenenza a quel tipo di grido di denuncia che volevo fare arrivare a questo mondo. L’effetto non doveva essere moralizzante, ma disturbante ed edificante. E per farlo c’è sempre l’aiuto dei grandi: i tre libri che rilessi all’epoca furono Cuore di tenebra di Conrad, Aspettando i barbari di J. M. Coetzee e L’ombra del sole di Kapuscinski».
Che altri libri dei grandi ha letto e legge?
«James Joyce. Il primo libriccino mi capitò quando ero ancora una studentessa disinteressata di Farmacia. Lo comprai a Dublino di seconda mano per 5 pence: si intitolava Introducing James Joyce di T. S. Eliot e ricordo di averlo aperto alla pagina in cui Eliot parla di Ritratto dell’artista da giovane e del momento in cui si racconta di una cena in cui emerge la bellezza della preparazione della tavola natalizia, con tutti i bicchieri di cristallo, il bellissimo camino acceso, la fiamma bluastra dell’alcol per caramellare il dolce natalizio. Leggevo di questa atmosfera e improvvisamente mi ritrovai nella classica parte irlandese dove si scatena la lite su sesso e politica. Lo lessi e mi trasformò come narratrice. Al tempo stavo cercando di scrivere senza risultati e quello fu l’attimo della verità: capii che la vera radice della scrittura era la mia comunità, casa mia, la mia famiglia, me stessa. Lì intuii che avrei dovuto trovare nelle mie esperienze, quasi per osmosi, il fulcro dell’ispirazione. Anche se ancora non sapevo bene come farlo».
Ecco perché «Ragazze di campagna» è chirurgicamente autobiografico.
«Esatto. In un certo senso Joyce è stata la mia iniziazione, per così dire, e in seguito si sono aggiunti tanti altri libri. Cechov, per esempio: leggere delle storie così vere e capirle, come se facessi parte io stessa di quella storia, come se fossi seduta lì accanto all’autore. Sono tante le persone che parlano e scrivono di emozioni, ma solo Cechov le tagliava fino ad arrivare alla verità. Anche suo fratello voleva raccontare, e Cechov gli disse: “Quello che devi fare è descrivere qualsiasi cosa, il paesaggio, il panorama, un evento, attraverso l’occhio emotivo del personaggio. Se fosse una stanza, per esempio, arredala di mobili solo se il protagonista della storia questi mobili li vede davvero».
Joyce, Cechov. E se non sbaglio Beckett.
«In Irlanda è stato bollato come “il blasfemo”. Quando ho letto Beckett mi sono resa conto che i suoi libri erano molto vicino al Libro di Gioele. La lingua dei Vangeli, in contrasto con la lingua dell’Antico Testamento che non è diretta ma meditativa, mi ha aiutano in molti modi diversi. Oggi mi piace Roberto Bolaño. E sempre Virginia Woolf, Sylvia Plath con le sue poesie. Per quanto riguarda il vostro Paese ho ammirato tantissimo Alberto Moravia che è stato bandito nel mio Paese, come me e come molti altri. Ricordo che durante una conversazione con lui si è scherzato su quanto fossimo entrambi immorali».
E poi Philip Roth, che disse di lei: «La più grande scrittrice di lingua inglese».
«Ah, Philip! È stato uno scrittore straordinario perché è riuscito nell’impossibile: le oscenità, il sesso, la denuncia... ha reso tutto con un registro divertente, interessante, vitale, a differenza dei suoi contemporanei americani. La parola che utilizzerei nel caso di Roth è immediatezza. Era immediato: leggi una sua pagina e ti trovi subito lì. Una volta mi ha detto: “A te va bene perché tu in Irlanda hai tutti questi scorci da descrivere, da inserire nelle tue storie. Io invece vengo dal New Jersey dove i panorami sono del tutto inutili e non mi servono a nulla”».
L’Irlanda. Quando chiesero a Faulkner perché avesse inventato Yoknapatawpha, la sua contea immaginaria, lui rispose che per scrivere un libro è necessario essere memoria della propria terra o crearsene un’altra che la contenga.
«La mia terra è stata una “madre” psicopatica. Anche la mia vera madre un po’ lo era. Ma mi ha trasmesso il desiderio, la volontà e la capacità di diventare in segreto una scrittrice. Da bambina i libri non facevano parte della mia vita, in casa non ce n’erano, però avevo accesso alle favole, alla mitologia e ad altri testi del genere. Senza che me ne accorgessi, questi hanno instillato in me la volontà di essere selvaggia nell’afflato narrativo e allo stesso tempo accurata nel linguaggio».
Come è stato lasciare l’Irlanda, trasferirsi a Londra, diventando parte della «swinging London» con le sue feste e la sua rivoluzione?
«Quando sono venuta a vivere in Inghilterra pensavo addirittura che gli uccelli fossero diversi rispetto a quelli della mia terra, tanto la natura era diversa. Mi mancava il paesaggio irlandese e proprio per questo la memoria nei confronti del mio Paese si ravvivò. La separazione dalle radici è utilissima al ricordo perché mostra l’oggetto della mancanza con brutalità. A patto che non si ceda alla retorica della nostalgia. Al contrario, ho grande compassione per coloro che dimenticano».
Le donne dei suoi libri non dimenticano mai.
«Trova?».
«Prima ero ragazza, ora non più», l’incipit di «Ragazza» contiene secondo me anche questo passaggio doloroso verso una disillusione adulta, attraverso la memoria, rivolta a un’epoca maschilista che ferisce.
«Non penso che la mia disillusione sia rivolta esclusivamente agli uomini. Ho la sensazione che le divisioni del mondo siano la conseguenza di quanto gli esseri umani si sono allontanati dello stato di grazia con cui, si suppone, tutti nasciamo. Parlando della mia esperienza, ho sofferto per via di uomini, ovviamente, ma sono riemersa e ho continuato a scrivere, a prescindere da tutto, come avevo deciso di fare sin da giovanissima. Certo, continuo a pensare che le artiste donne non ricevano con la stessa frequenza degli uomini i riconoscimenti, il risalto, o i posti migliori nel pantheon della letteratura. Eppure, ironicamente, le donne sanno essere tanto ingiuste, incorrette e riluttanti nei confronti di altre donne quanto gli uomini».
Ha amato uomini o ha avuto modelli che l’hanno rappacificata in questo senso?
«Da ragazza oltremodo romantica i miei amori ideali viravano da Gesù, a Heathcliff di Cime tempestose, persino a Dracula, e molti altri nel mezzo; si potrebbe dire che le mie tendenze, e quindi le mie passioni, erano vagamente gotiche. Ma devo dire che è stato crescendo due figli – a volte, può darsi, con troppa indulgenza – che mi sembra di essermi avvicinata al mondo maschile, o forse di averlo capito meglio. Avevo una gran paura degli uomini, una paura che avevo percepito da sempre: negli anni Trenta e Quaranta quando sono cresciuta io in Irlanda, gli uomini e le donne vivevano completamente separati, c’erano spesso liti nelle case, in famiglia. In chiesa uomini e donne sedevano separati, in zone diverse. Quindi avevo paura degli uomini, della loro violenza e anche della loro volontà di controllo. Ho sposato un uomo propenso al controllo il che significa che ho sposato una persona che temevo, pensate quanto sono perversa. Diciamo che il groviglio lo ha sciolto la maternità: lì ho iniziato a capire il maschile».
Lo ha anche celebrato, mi riferisco a molti dei suoi racconti brevi.
«Soprattutto in uno, I re della pala, che traccia la difficile condizione fisico-emotiva di un ragazzo della campagna irlandese che, trasferitosi a Londra per lavorare come operaio in strade e cantieri, si ritrova rinchiuso per sempre in quel ruolo. Al di là del femminile e del maschile, quello che mi piace fare è prendere qualcuno, un uomo, una ragazza, una donna, qualcosa di palpabile, e poi inserirlo con la sua vicenda in un contesto politico. Una storia umana, senza fare psicoanalisi».
Eppure, la psicoanalisi fu per lei un’esperienza rivelatoria.
«Sì, e in particolare il lavoro portato avanti con lo psicoanalista Ronald Laing che ha avuto un’enorme influenza sulla mia vita e sulla mia psiche. Laing era una persona complessa pronta ad applaudire la salute mentale e a lottare per eliminare la follia. Mi ha formata al silenzio e al coraggio. E voglio assolutamente essere chiara: sono stata io a chiedergli di darmi l’Lsd, non me lo ha imposto. Sentivo, penso giustificatamente, che avrebbe allargato i miei orizzonti. Quello che ignoravo è che tutto ciò avrebbe avuto un prezzo: nel mio caso fu un anno di follia e allucinazioni. Se un lettore dovesse, ad esempio, leggere uno dei miei libri scritti prima dell’esperienza con l’Lsd e poi Night senza conoscere il nome dell’autore non credo che sarebbe in grado di capire che si tratta della stessa persona. Fece tutto parte di esperienze che misero le emozioni al centro della mia esistenza, e della mia letteratura. Mi intensificarono».
Anche l’austriaco Thomas Bernhard usò il termine «intensificare» rivolto al proprio cuore narrativo. Si riferiva alla terapia d’urto dell’isolamento che gli potenziò la visione emotiva.
«Amo Bernhard proprio per questo. Nei suoi libri sembrano non esserci emozioni e invece ce ne sono di profondissime. È uno scrittore severo ma quando lo leggo sento il palpito di una persona estremamente arrabbiata, al tempo stesso brillante, isolata, epicurea. Il controllo dell’emozione sulla pagina, dopo che nella vita la stessa emozione è sgorgata senza controllo: è tutto. Così è stato con Ragazza: non volevo scrivere un libro sentimentale, non volevo nemmeno scrivere un libro barbaro perché avrebbe perso la realtà di noi uomini. Cosa ci rimane se non capire chi siamo veramente?».
Constatare l’umano: l’atto politico di Edna O’Brien.
«Credo che la più grande educazione nella vita venga dalla letteratura. Non è in grado di fermare le guerre, e probabilmente non lo sarà mai, ma gli effetti che ha sul nostro io interiore sono molto profondi. Nel mondo superficiale bramoso di cliché in cui viviamo è necessaria più che mai. È uno sforzo sacro».