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 2020  settembre 12 Sabato calendario

Da "L’omicidio è denaro" di Petros Markaris (La nave di Teseo)

Primo capitolo

Non siamo in molti. Un centinaio a dir tanto. Quand’ero giovane,
il partito ci avrebbe convocato per dar conto dell’insuccesso
della mobilitazione. Oggi, dieci persone in una strada o
in una piazza vengono scambiate per una manifestazione di
protesta; allora noi, che siamo in cento, praticamente siamo
una folla sterminata.

Per la maggior parte è gente che viene dal nostro centro di
accoglienza per i senzatetto. Ho fatto un giro anche negli altri
centri e sono riuscito a metterne insieme un altro po’. Il resto è
arrivato dai poveracci che dormono sui marciapiedi.

I passanti si fermano a guardarci, perplessi. Si chiedono,
e a ragione, che cosa ci è venuto a fare, in piazza Attikìs, un
gruppetto di facce sconosciute intorno a una bara. La stessa
domanda se la pone la gente del quartiere che si è affacciata
alle finestre e ai balconi per godersi lo spettacolo.

Due uomini di cui non conosco il nome perché provengono
dall’altro centro di accoglienza poggiano la bara a terra.
“Gli parlerai, Lambros?” mi chiede Stèlios.

 “Sì, ma aspettiamo ancora un po’. Potrebbe arrivare ancora
qualcuno.”
Non arrivano le persone che aspettavamo, ma arriva
un’autopattuglia. Non ci vuole molto a capire. Alcuni degli
spettatori hanno visto gente intorno a un feretro, si è spaventato
e ha chiamato la polizia.
“Che succede?” chiede a tutti e a nessuno in particolare
l’agente uscendo dalla macchina.
“Una manifestazione pacifica,” gli risponde la signora
Anna.
“E la bara? C’è qualcuno dentro o è vuota?”
Non faccio in tempo a rispondere perché ci piomba addosso
una squadra antisommossa e ci circonda immediatamente.
I miei compagni di lotta mi guardano inquieti.
“Nella bara c’è la sinistra,” rispondo all’agente. “Si è suicidata
e siamo qui per farle il funerale. Dato che la sinistra era
nata nei quartieri popolari, abbiamo deciso di seppellirla qui,
accanto a viale Ionias che è sempre stata la strada dell’immigrazione
e della povertà.”

“La bara la prendiamo noi. E voi vi disperdete senza far
casino, perché il casino non fa bene né a voi né a noi,” sono le
parole del capo della squadra antisommossa che nel frattempo
si è avvicinato e ha ascoltato quel che dicevo.
Il suo tono mi fa innervosire e alla mia età il nervoso torna
spesso al passato: “Mi puoi spiegare una cosa?” chiedo all’ufficiale al comando.
“Quando ero giovane manifestavamo a favore della
sinistra e i tuoi nonni ci massacravano di botte, prima nelle
piazze e poi in centrale. Ora che ti diciamo che la sinistra si
è suicidata, volete lo stesso prenderci a botte? Ma insomma,
viva o morta che sia, la sinistra viene sempre accolta a suon di
botte?”

“Signor Lambros, perché non telefoni al commissario
Charitos?” mi fa Stèlios offrendomi il cellulare.
L’ufficiale al comando resta di sasso. “Conosci il commissario
Charitos?” mi chiede.

Non faccio in tempo a rispondere che si avvicina anche
l’autista dell’autopattuglia e gli sussurra qualcosa all’orecchio.
“Sei quel Lambros che ha dato il nome al nipotino del
commissario?” mi chiede dopo che l’agente ha finito di fornirgli
gli aggiornamenti del caso.

“Sì, sono io.”
Si ammorbidisce all’istante. “Allora, fate pure la manifestazione.
Noi vi seguiremo per evitare incidenti.”
Ma com’è iniziato tutto questo? Se qualcuno me lo chiedesse,
risponderei “mah, mi è venuto così...” oppure “... mi si
sono risvegliati i vecchi peccati di gioventù”. Ma la verità è che
non è stata un’idea nata dal nulla.

La scintilla è venuta dai respingimenti al centro di accoglienza.
Non che ci sia capitato che qualche ospite del nostro
centro sia stato respinto ed espulso dalla Grecia: il fatto è che
noi, ad alcuni di quelli che hanno bussato alla nostra porta, abbiamo
dovuto rispondere che non c’era posto, perché non avevamo
neanche un letto. E abbiamo dovuto lasciarli per strada.
Li seguivo con lo sguardo, mentre scendevano, in silenzio,
a capo chino, diretti verso via Drosopoulou, e mi sono ricordato
di come avremmo reagito se questo fosse accaduto negli
anni cinquanta o sessanta.

Saremmo scesi in strada a manifestare per i poveri e i diseredati
ridotti sul lastrico. Avremmo gridato i nostri slogan per
qualche ora, ci saremmo scontrati con la polizia, e quasi sicuramente
saremmo tornati indietro a mani vuote. Nove volte su
dieci lo sapevamo sin dall’inizio che saremmo rimasti vox clamantis
in deserto, ma quel che ci faceva scendere in strada era
l’“Eh no, cazzo! Questa non ve la facciamo passare!”
Alle spalle, però, avevamo un partito e un movimento di sinistra
che sapevano come mobilitarci al suono dell’“Eh no, cazzo!”
Oggi, per tutti noi l’“Eh no, cazzo!” si è trasformato in “E adesso
che cazzo facciamo?” E i senzatetto con il capo chino mi hanno
aperto gli occhi e mi sono reso conto che anch’io ero entrato a far
parte del movimento dell’“E adesso che cazzo faccio?”
Proprio in quell’istante, mentre guardavo i senzatetto,
ho capito che avremmo dovuto dimenticare la sinistra, i movimenti,
la resistenza, i guai che abbiamo passato, le persecuzioni,
il confino, le isole in cui eravamo stati tenuti prigionieri.
Nulla di tutto questo ormai ha senso oggi, e la sinistra ha buttato
tutto nella spazzatura.

Oggi i poveri devono sollevarsi da soli se vogliono ottenere
qualcosa. Non hanno nulla da aspettarsi dai movimenti
esistenti: devono essere loro a creare un movimento. Tutto il
resto è nostalgia, storie lacrimevoli che risalgono al passato. E
anch’io, Lambros Zisis, devo traslocare dall’ideologia del marxismo-
leninismo e passare all’ideologia della povertà. Tutto il
resto è movimentismo dei benestanti.
All’improvviso, vedo arrivare in piazza un drappello di
immigrati. Per lo più arrivano dai Balcani, sono bulgari e albanesi.
Riconosco anche alcuni – pochi – asiatici.
Li capeggia un trentenne, greco, che mi si avvicina: “Dato
che ci avete detto che celebrate i funerali della sinistra, ho pensato
di venir qui con i miei vicini di casa. Molti arrivano dagli
stati del socialismo reale, ma non hanno fatto in tempo a celebrare
il funerale al socialismo perché il cambiamento è arrivato
troppo all’improvviso. Potrebbero farlo adesso.”
“E gli altri?” gli chiedo indicando gli asiatici.
“Loro non sono venuti per il funerale. Sono qui per manifestare
la loro povertà,” mi risponde.
Do un’occhiata ai manifestanti. Aspettano, tranquillamente.
Come la squadra degli agenti antisommossa. Se ne
stanno ai margini, immobili. È il momento buono per cominciare
a parlare.
“Siamo qui per una veglia funebre. Una manifestazione
che non ammette né grida, né casino, ma solo raccoglimento.
Io, che vi parlo, ho speso la vita nelle lotte della sinistra per il
cambiamento. Oggi, vi dico che è tutta roba vecchia – patate
ammuffite del raccolto dell’anno scorso. Non aspettatevi che
qualcuno vi appoggi, vi offra una spalla per sostenervi.”
“E lo dici a noi,” sento una voce maschile provenire dal
gruppo dei nuovi arrivati. “Noi siamo qui perché nel nostro
paese il socialismo è morto.”
“Ma anche con il socialismo lavoravamo per un tozzo di
pane,” incalza una donna.
“A noi, in Pakistan, no pane. Qui no pane. Dove pane?”
esclama uno in seconda fila mentre scuote la testa, disperato.
“Giusto, avete ragione,” gli dico. “Per questo non dovete
aspettarvi nessun aiuto e nessun sostegno da nessun governo.
La sinistra e il socialismo in cui abbiamo creduto, sono en-
trati nel gioco del potere e si sono suicidati. I poveri, in tutto il
mondo, devono capire che sono loro stessi il movimento.”
“Parli bene, ma cosa dobbiamo fare, cazzo?” mi chiede
una voce femminile che sembra mi abbia letto nel pensiero.
“Dobbiamo concentrarci su ogni quartiere, su ogni rione
e non per piangere sul nostro destino, ma per parlare dei nostri
problemi. Per capire chi ci sfrutta, chi ci deruba, chi prospera
sulle nostre sventure. Noi, nel giro di qualche giorno,
creeremo una commissione. Venite a raccontarci i vostri problemi
e decideremo insieme come reagire e che tipo di manifestazioni
di protesta organizzare.”
Mi fermo, in attesa che qualcuno intervenga, ma tutti tacciono.
Mi hanno lasciato l’iniziativa e ora aspettano la mossa
successiva.
“Andiamo a seppellire la sinistra,” annuncio.
Passiamo di fianco alla fermata della metropolitana e
usciamo su viale Ionias. Mi seguono tutti preceduti dalla bara.
Ho già fatto un sopralluogo sulla zona e so con certezza
dove lasceremo il feretro: in un piccolo appezzamento di terra,
a fianco di una casa che risale agli anni venti, quando arrivarono
i profughi dall’Asia minore. Il terreno è sgombro, ma la casa ha
un modesto giardino alberato. Non saranno cipressi, ma la casa
dei profughi con gli alberi è il cimitero ideale per la sinistra.
“Posate qui la bara,” chiedo ai due che l’hanno portata fin
qui indicando loro il centro del terreno.
“E ora vorrei osservare un minuto di silenzio,” comunico
ai presenti.
“Ma non dobbiamo celebrare il funerale?” chiede una
donna.
 “Un funerale che dura un minuto di silenzio è perfetto
per la sinistra,” le rispondo.
“Non la seppelliamo?” mi chiede un uomo.
“No. La lasciamo qui, in bella vista, perché tutti la vedano.”
Qualcuno ha scritto sulla bara, con la vernice bianca QUI
GIACE LA SINISTRA, parole che calzano come un guanto.
Una volta terminato il minuto di silenzio, il gruppo comincia
a sciogliersi.
“Non perdiamoci di vista!” esclamo. “Avrete presto nostre
notizie. Nel frattempo, cercate di organizzarvi nei vostri
quartieri, fate un elenco dei vostri problemi e delle ingiustizie
che subite.”
Alcuni se ne vanno da soli, altri in compagnia. Il gruppo
più numeroso è quello degli immigrati. Noi torniamo verso la
stazione per prendere la metropolitana in direzione Victoria.
I nuclei antisommossa si preparano ad andarsene. L’agente
al comando mi vede e mi si avvicina.
“Ha parlato bene, signor Lambros, ma ci mette nei guai.”
“Perché?”
“Vede, i politici distribuiscono promesse ai poveri; è come
se dicessero sempre ‘sta’ tranquillo che tutto si risolve’, e così
non hanno problemi. Se lei, invece, cerca di metterli in agitazione,
finiranno per mandare noi a togliere le castagne dal
fuoco.”
Mi lascia e si dirige verso l’autopattuglia, mentre io mi
rendo conto che non ha tutti i torti.
Lungo il percorso, i miei sono entusiasti. Ma io so che
all’inizio ci sono gli applausi. Gli insulti arrivano dopo.