Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2020
La lingua degli esploratori
In una età timorosa ed esitante, c he ha sgomberato stazioni e aeroporti costringendo a selezionare drasticamente le ragioni per cui si viaggia, o a restarsene a casa, soli con un voucher, viene quasi spontaneo cercare tra le pagine dei libri quel brivido dell’avventura itineraria cui la realtà ci sta disabituando. A questa ragione, forse frivola, per tornare ai grandi viaggi del passato si aggiunge il fatto che nelle cosiddette scoperte geografiche (ma qualcuno nega loro anche questa qualifica, che si può certo relativizzare) della prima età moderna si vuol cogliere oggi soprattutto la preparazione o la prefigurazione della cultura schiavistica e coloniale, col risultato che di quella cultura i grandi esploratori sono a volte considerati i simboli e quasi i primi responsabili. Ma vale la pena di chiedersi se tale accusa possa seriamente avere un senso.
Qualche spunto si può cercare in un libro dello storico della lingua italiana Sergio Bozzola, che analizza con paziente dettaglio il modo in cui sono scritti i testi dei protagonisti della stagione di navigazioni trascorsa fra Quattro e Cinquecento. È l’età che va dai tempi del veneziano Alvise da Mosto (1429-1483) a quelli del fiorentino Francesco Carletti (morto nel 1636), durante la quale i resoconti di viaggio verso i pretesi confini del mondo portavano firme italiane come quelle di Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Antonio Pigafetta, Antonio da Verrazzano, oppure spagnole (Gonzalo Fernández de Oviedo) o francesi (come quelle di Jean de Léry), ed erano scritti in varie lingue romanze (in spagnolo o in un italiano più o meno regionale, in veneziano, in francese), oltre che in latino. Ma rispondevano tutti, o quasi, negli stessi modi alle stesse esigenze, alcune delle quali si tende forse a dimenticare.
Quali esigenze? Innanzitutto – e Bozzola lo spiega sùbito, quasi mettendo le mani avanti – questi ardimentosi naviganti avevano bisogno di persuadere i loro lettori (cioè spesso i loro finanziatori) che quel che facevano aveva un senso (ciò che non era scontato), e lo aveva indipendentemente dagli interessi economici immediatamente soddisfatti. Lo aveva, insomma, per l’aumento delle conoscenze che derivavano dalla scoperta di terre, popoli, animali, piante e prodotti nuovi e mai prima inclusi nelle fantasiose enciclopedie del reale medievale. Ben più della conquista, insomma, a spingere l’uomo del Rinascimento verso il pericolo dell’esplorazione sembrano essere, stando alle sue stesse dichiarazioni, la sete di conoscenza e il desiderio di puntuale verifica.
Si trattava poi – e in tal senso il libro s’intitola giustamente alla retorica – di convincere il pubblico della verità tangibile e autopticamente verificata di fatti (oggi diremmo dati) dei quali gli autori stessi sapevano che difficilmente sarebbero apparsi credibili, perché spesso non commensurabili o non paragonabili con alcuna delle realtà del Vecchio mondo. E si trattava di farlo con strumenti diversi da quelli che oggi soccorrono l’osservatore delle realtà anche più peregrine: la registrazione, l’immagine in presa diretta, o anche solo la foto. Raramente gli autori di diari e relazioni ricorrono, in effetti, all’immagine (giusto la forma della costellazione della Croce del Sud viene esposta dal Da Mosto con l’ausilio di un semplice schema della disposizione degli astri). Essi preferiscono di norma le parole, anche se questo mezzo li pone di continuo di fronte a una sfida difficilissima: trovare quelle giuste per parlare di una meraviglia, di una molteplicità, di una varietà e di una diversità che mettevano a dura prova i paragoni anche più spericolati che si potevano proporre con luoghi e oggetti conosciuti.
Anche se alcuni di questi autori sono abili con la penna – ad esempio il Pigafetta, criado di Magellano con un temperamento di vero narratore, capace al suo ritorno di lasciare a bocca aperta il Senato veneziano in un’audizione memorabile («siché Soa Serenità e tutti chi l’aldite rimaseno stupefati di quelle cosse in India», annota il cronista Sanudo) – la maggior parte di essi non ha particolari doti letterarie, e nel confrontarsi con la parola scritta tende ad avere reazioni ripetitive, modulari. Bozzola procede nella sua analisi applicando un metodo di lavoro che la stilistica ha rodato su altri tipi di testo: data una costante formale (ad esempio l’enumerazione), lo studioso snocciola sotto forma di raffica citazionale i referti raccolti e schedati nella quindicina di autori di riferimento, mette in rilievo i caratteri ricorrenti e si interroga sul significato di quell’espediente formale nell’economia del testo. L’esempio scelto è particolarmente efficace perché consente di istituire un nesso diretto con quello che gli studi di storia della retorica hanno additato come un tratto caratteristico dell’intera epoca, il Rinascimento: l’elencazione, appunto, così frequente nei capolavori della letteratura del Cinquecento.
Nel caso dei viaggiatori, essa risponde all’esigenza di apparire esaustivi, classificatorî, precisi nell’elencazione di tutto ciò che si è visto. Piante («uve e persiche, melacotogno, melagranate, agli fortissimi, cepole mezane, nuce buonissime, meloni, rose, fiori, noce persiche, fiche, cucuze, cetri, limoni e melangolo, in modo ch’è un paradiso»: Ludovico de Vartema), animali («lioni, cervi, cavrioli, porci salvatici, conigli e altri animali terresti che non si truovano in isole, se non in terra ferma»: Amerigo Vespucci), ma anche popoli o fenomeni naturali: la tecnica di Bozzola consente di assaporare per saggi minimi testi che inevitabilmente vien voglia di leggere direttamente, nella loro interezza. Non è detto che sia una buona idea, giacché di fatto i prodotti di questo genere non sono certo concepiti come romanzi d’avventura e contengono lunghe parti prive di qualsiasi fascino narrativo, in cui a prevalere sono le preoccupazioni tutte tecniche di gente per la quale andar per mare era anche un duro mestiere. Fra le osservazioni più interessanti del critico, c’è quella relativa allo spazio relativamente scarso che, nei testi di molti grandi navigatori cinquecenteschi, ha giust’appunto il mare: luogo del viaggio, di solito monotono e privo di particolari elementi da comunicare, con cui si alternano i luoghi dello sbarco, dell’esplorazione a terra e dell’incontro con altre popolazioni, normalmente descritti con più abbondanti minuzie. Per i viaggiatori terrestri (giacché anche di viaggi asiatici si parla nei testi esaminati), il corrispettivo del mare è il deserto: plaga silente e sempre eguale a sé stessa, per quale si possono giusto appuntare gli eventi più impressionanti («morirono 33 persone per la sete, e molti forono sepulti nel sabione che non erano finiti de morire; e li lassavano solo el viso scoperto. Poi trovamo uno monticello a presso del quale era una fossa d’acqua, de che fummo molto contenti»: Vartema). Nel finale, il volume presenta in tutta la loro ampiezza alcuni episodi di particolare efficacia narrativa, come la morte in battaglia di Magellano raccontata dal solito Pigafetta, o un’incredibile avventura di camuffamento, seduzione e fuga occorsa nello Yemen ancora al Vartema, dove lo scrupolo diaristico cede finalmente il passo a una sensualità fiabesca: «di lì a tre giorni venne el Soldano, e la Regina subito me mandò a dire che se io voleva star con lei che essa me faria ricco».