Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2020
Banche centrali pronte alla guerra sulle monete digitali di Stato
Un missile nordcoreano viaggia verso la base Usa nell’isola di Guam, dimostrando che Kim Jong-un è in grado di arrivare fino sul territorio statunitense con una testata nucleare. È il 19 novembre 2021: alla Casa Bianca è in corso una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza nazionale. La prova di forza del regime di Pyongyang è stata resa possibile da fondi che si sono fatti beffe del blocco economico grazie a una criptovaluta, che non è il tanto vituperato bitcoin, ma una moneta del tutto legittima, lo yuan digitale. Il vero Larry Summers in qualità di finto segretario al Tesoro dichiara la propria impotenza di fronte alla valuta che mette in crisi il dominio globale del dollaro. «La natura fondamentale del denaro sta cambiando», ammette l’assistente al presidente per le Valute digitali Neha Narula, nella realtà direttrice della Digital currency initiative del Mit Media Lab che ha organizzato questa simulazione lo scorso novembre.
Uno scenario da “guerra di valute digitali” non così lontano dalla realtà, che lascia intravedere un nuovo ordine economico globale in cui il dollaro si troverà sotto l’attacco di progetti di valute digitali di Banche centrali accelerati dall’emergenza del Covid 19. Non è solo questione di potere economico: la pandemia ha evidenziato ancora di più la necessità di un sistema finanziario globale efficiente, economico e inclusivo. Già oggi siamo abituati a fare a meno del contante, con sistemi e applicazioni che hanno smaterializzato il denaro in maniera elettronica, ma ora si pensa a monete nativamente digitali.
Sistema più efficiente
Quel che è certo che nell’arco di pochi anni il denaro non sarà più lo stesso. Un quinto della popolazione mondiale potrebbe trovarsi a familiarizzare con valute digitali emesse dalla propria Banca centrale nel prossimo triennio, secondo la Banca dei regolamenti internazionali. La nuova era delle valute digitali è sostenuta da diverse ragioni che Philippe Ithurbide, senior economic advisor di Amundi, sintetizza: «Velocità, facilità d’uso, il cambiamento nei comportamenti e nelle abitudini delle persone, l’inclusione di persone unbanked, una sfiducia diffusa nei confronti delle banche e delle valute fiat». Le stesse motivazioni alla base della nascita del bitcoin: l’intuizione del misterioso Satoshi Nakamoto era una moneta che rendesse possibile pagamenti peer-to-peer, istantanei, disintermediando il sistema finanziario tradizionale. Il bitcoin e le altre criptovalute si sono rivelate però più un mezzo di speculazione, inadatto a sostituire le monete fiat a causa dell’altissima volatilità. Ma allo stesso tempo hanno rappresentato un’ancora di salvezza nei sistemi bancari più inaffidabili.
L’anno scorso è andato in scena il secondo atto, quando Facebook ha presentato il suo progetto di criptovaluta: non più un gruppo anonimo di anarchici libertari e antisistema, ma una delle società più potenti e controverse del mondo. Come aveva indicato Edward De Bono, il teorico del pensiero laterale, nel suo saggio provocatorio “The Ibm dollar” anche per le monete stava succedendo quello che ha devastato diversi settori industriali. Tecnologia e connessione hanno abbassato le barriere all’accesso rendendo possibile quello che sembrava solo un’ipotesi teorica: chiunque avrebbe potuto mettersi a battere moneta. Arriverà un momento, scriveva, in cui «gli eredi di Bill Gates scalzeranno i successori di Alan Greenspan».
Effetto stablecoin
Non è passato molto tempo. Le autorità finanziarie globali non sono ancora pronte ad accettare una moneta emessa da privati e Libra difficilmente vedrà la luce così come era stata concepita. Ma l’architettura pensata da Mark Zuckerberg ruota attorno a una moneta che replica un paniere di valute (il dollaro non va oltre il 50%) e di strumenti finanziari, che dichiara così le sue ambizioni di valuta di riferimento a livello mondiale, ma che mette anche al riparo da eccessive oscillazioni. Si chiamano “stablecoin” e sono strumenti, di solito criptovalute, agganciati a una moneta, a una materia prima o ad altri asset. Per esempio il Tether: ogni unità è garantita da un dollaro di riserva, ma nessuno mette la mano sul fuoco che sia davvero così, e la criptovaluta è finita nell’occhio del ciclone sospettata di essere stata utilizzata per manipolare il mercato delle altre criptovaluta, bitcoin in primis.
La strada è tracciata: l’idea di usare le valute tradizionali o l’oro per garantire il valore delle criptovalute costringe le Banche centrali a non rimanere immobili. Alcune hanno spinto verso sistemi di pagamento in tempo reale: la Bce sostiene il progetto indicato ironicamente come Pepsi, Pan-european payment system initiative, per una carta di pagamento unica europea. Ma la vera rivoluzione è quella delle valute digitali, in quella che si può considerare come la terza generazione delle criptovalute: le Banche centrali si preparano a battere moneta fatta solo di bit. Stando ai numeri della Bri, l’80% delle Banche centrali ci sta lavorando, il 40% ha avviato sperimentazioni, il 10% ha messo in campo progetti pilota. Perfino la Fed ha ammesso che sta lavorando con il Mit sul tema. Ma chi sta facendo davvero sul serio è la Cina, con un progetto già avviato da inizio anno (si veda articolo a fianco, ndr) che rappresenta una sfida aperta al predominio del dollaro.
Perché una Banca centrale pensa a una valuta digitale ufficiale? Senz’altro in chiave di efficienza e velocità dei pagamenti, così come di contrasto all’evasione fiscale e al riciclaggio di denaro sporco. Allo stesso tempo il controllo diretto della moneta da parte dell’autorità monetaria rende più efficiente il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Soprattutto in tempi di tassi negativi come quelli attuali: se il conto è gravato da tassi negativi i cittadini saranno indotti a spostare i soldi dal conto e a farli circolare. Questa disintermediazione, simile a quella del bitcoin, comporta però rischi non indifferenti per le banche commerciali. Come sostiene Kenneth Rogoff esistono dubbi sulla capacità delle Banche centrai nel gestire valute retail: «Chi potrà finanziare consumatori e piccole imprese se le banche perdono la gran parte dei loro clienti retail, che rappresentano la loro migliore e più conveniente forma di raccolta?», si chiede l’ex capo economista del Fmi. Le banche centrali potranno rifinanziare il sistema creditizio con i fondi dei depositi digitali, ma questo darebbe alle autorità pubbliche «un potere eccessivo sul flusso del credito e alla fine sullo sviluppo dell’economia». In ogni caso il sistema bancario rimane marginalizzato.
I rischi per la privacy
Queste valute possono assumere una doppia forma. Una “account-based” con i cittadini che hanno un conto presso l’istituto di emissione, mentre oggi hanno conti presso banche commerciali che a loro volta hanno conti di riserva presso la Banca centrale. Oppure potrebbe avere la forma di un token, una rappresentazione digitale della valuta che potrà essere scambiata tra wallet su base peer-to-peer, utilizzando di solito un tecnologia distributed ledger come la blockchain: uno schema insomma simile al bitcoin. Con la differenza che, mentre la criptovaluta più famosa si basa sullo pseudonimato, le Banche centrali non sono per nulla intenzionate ad accettare un sistema che favorisca l’anonimato e a rinunciare a uno stretto controllo centralizzato. Il rischio è però di un eccesso di potere concentrato nelle loro mani con il controllo di tutti i movimenti finanziari dei cittadini.
Bitcoin ha dimostrato che un sistema basato su token riesce a tenere traccia fedelmente di tutte le transazioni. Una concentrazione di potere e di informazioni fa paura se è in mano a un moloch privato come Facebook. Ma anche le Banche centrali non sono del tutto immuni da rischi di privacy.