Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2020
A tavola con Alberto Calcagno (ad di Fastweb)
«In Italia viviamo di ossessioni pubbliche. Non c’è una persona che, nell’ultimo mese, non abbia parlato di rete unica e di nuove infrastrutture tecnologiche. Una volta noi italiani eravamo tutti commissari tecnici della nazionale di calcio. Adesso è pieno di ingegneri di rete e di economisti industriali. La politica ha capito che contare i chilometri di fibra è una operazione elementare che crea consenso. È facile, ma semplicistico e dunque sbagliato. La cosa giusta, anche se più complessa, consiste nell’elaborare policy di lungo periodo per ridurre, nelle famiglie e nelle imprese, il gap dell’alfabetizzazione digitale rispetto agli altri Paesi europei. L’analfabetismo tecnologico crea nuove povertà culturali e nuovi vuoti negli apparati produttivi: nelle famiglie e nelle aziende, nella produttività del nostro tessuto economico e nella struttura della domanda finale, insomma nella vocazione al futuro della nostra società. La rete è come una autostrada. Puoi passare da una a nove corsie. Se però non hai una Ferrari, ma una piccola utilitaria, viaggerai sempre nella prima corsia».
Alberto Calcagno, classe 1972, è l’amministratore delegato di Fastweb. Qui da Rovello in via Tivoli, vicino a Brera, beviamo subito un bicchiere di Nebbiolo di Aldo Conterno del 2017 – il “Favot” – con salami e olive nere di aperitivo: «Amo molto il vino e la cucina piemontese, sono di Voltri, fra noi liguri e il Piemonte c’è un legame speciale, quando mia mamma Maria Grazia ha compiuto i settant’anni l’ho portata qui a Milano agli Arcimboldi al concerto di Paolo Conte».
Dagli anni Novanta, il nostro Paese è segnato dalla scomparsa della grande impresa e dal ridimensionamento delle banche, dal disorientamento popolare e dalla necrotizzazione delle élite classiche del Novecento. Da allora si sono accentuati due fenomeni: alcune imprese sono diventate quasi autistiche rispetto alla realtà nazionale perché immerse in una globalizzazione per 25 anni prospera e profittevole, altre hanno sviluppato un rapporto di dipendenza dalla politica e dalla economia pubblica che, con la patologia recessiva provocata in Italia dal coronavirus e dalla nuova subcultura del debito pubblico quale variabile indipendente, hanno sempre più occupato spazi e aumentato la loro influenza.
Da Rovello, mentre iniziamo a bere, parlare con Calcagno equivale a parlare con un amministratore delegato di una impresa che – cosa non scontata in Italia – può avere nella vita pubblica un rapporto equilibrato con il potere politico. Oggi Fastweb è controllata al 100% da Swisscom, la società svizzera statale delle telecomunicazioni. Da 28 trimestri ha risultati positivi per numero di clienti, fatturato, cassa e redditività. Dal 2011, quando Calcagno è diventato capoazienda, a oggi la quota di mercato nel segmento delle famiglie è salita dall’11,5% al 15,7% e quella nel business dal 19% al 33 per cento. Adesso la società fattura 2,5 miliardi di euro e ha 2.800 addetti. Dice Calcagno: «Vado una volta al mese a Berna dagli azionisti. Poche volte all’anno devo scendere di persona a Roma. Abbiamo un dialogo sereno con le autorità di regolazione del mercato. Dialoghiamo con il governo e la politica, ma non dipendiamo dai partiti e non dobbiamo rispondere alle richieste dei singoli parlamentari. Nel 2016 con Telecom abbiamo creato Flashfiber, che è confluita adesso in Fibercop e in cui è entrato il fondo americano Kkr Infrastructure. È un progetto industriale nel bailamme mediatico e politico della rete unica che coinvolge Tim, Open Fiber e Cassa Depositi e Prestiti. Possiamo assumere decisioni giuste o sbagliate. Come tutti. Ogni giorno. Ma la nostra logica è di mercato».
Di antipasto, lui prende una insalata di finferli e io, invece, dei peperoni tonnati. Calcagno ha una storia particolare. Sua madre Maria Grazia aveva, vicino al porto di Genova, una piccola impresa specializzata in logistica per il petrolio. Suo padre Cesare era un artigiano edile, ramo ristrutturazioni. Maria Grazia ha frequentato il liceo linguistico, Cesare ha la terza media. Alberto, dopo il liceo scientifico, si iscrive alla Bocconi: «Appena arrivato a Milano, guardavo spaesato i miei compagni di corso in giacca e cravatta e con la valigetta ventiquattrore. Io avevo lo zaino e il maglione. Era il 1991, l’anno prima di Tangentopoli. C’era ancora la scia degli yuppies degli anni Ottanta. A inaugurare l’anno accademico venne l’Avvocato Agnelli».
Sembra un altro mondo. Era un altro mondo. «In Bocconi ho frequentato l’indirizzo di economia politica. Già al terzo anno sono andato a Londra per i classici colloqui nelle banche di investimento. Dopo sette incontri per l’assunzione nel trading di Merrill Lynch, al colloquio finale uno dei capi europei della banca mi chiede: “Vuoi diventare ricco?”. Io rispondo di sì. Lui mi richiede: “Vuoi diventare molto ricco?”. E io gli dico: “Ricco sì, molto ricco no”. A quel punto lui mi dice: “Sei nel posto sbagliato, arrivederci, quella è la porta”». L’anno dopo Calcagno è assunto alla Salomon Brothers, ramo corporate finance, training di cinque settimane a New York e poi il rientro a Londra, tre anni con punte di 140 ore di lavoro a settimana: «La finanza ha caratteri chiari e crudeli. La competizione e la solitudine sono totali. Ma le regole non sono mai opache e il baricentro di tutto è la meritocrazia. Lì ho appreso dei valori che, poi, quando sono rientrato in Italia, ho trovato poco nella nostra cultura nazionale: a Londra i più giovani e i più brillanti non sono una minaccia. Il significato letterale delle parole coincide con il loro significato sostanziale. Tutti dicono le cose in maniera diretta, senza alcuna ambiguità e senza il paratesto e le interlocuzioni diplomatiche che invece sono la cifra principale di molti uffici italiani». Una razionalità e una crudezza – ma anche una verità e una misurabilità della vita e in qualche modo anche del suo senso – che metaforicamente si riflettono nella passione per la disciplina e la durezza dello sport: «Ancora adesso faccio 20 ore di allenamenti sportivi a settimana. Durante la serrata del coronavirus io, mia moglie Francesca e mio figlio Pietro siamo stati ad Arenzano: è stato bello allenarsi nella corsa e in bicicletta fra il mare della Liguria e le colline del Piemonte, le Langhe e le Alpi Marittime». Una idea sviluppata in Get in the game. La sfida della crescita (Mondadori, pagg. 130, 11 euro), un libro a sua firma che rappresenta la prima – misurata – uscita pubblica di un manager non ancora cinquantenne finora rimasto soltanto in ufficio e in azienda a Milano, mentre fuori ormai si è imposto un “capitalismo” di relazioni e di commistione fra la politica e l’economia, fra le nudità psicologiche narcisistiche dei siti internet e gli anfratti romani.
Il cameriere porta il piatto principale: vitello tonnato per lui e agnolotti del plin al burro e salvia per me. Passiamo a bere una Barbera d’Alba 2018 di Giuseppe Rinaldi. Nel marzo del 2000 Calcagno, che lavora per la Donaldson Lufkin & Jenrette, segue la quotazione di e.Biscom. «Quando mi hanno chiesto di entrare in azienda – dice – ho accettato, ma all’inizio ero disorientato. C’erano riunioni continue. Mi chiedevo: ma così chi lavora? E c’era una componente politica negli atteggiamenti delle persone, di autodifesa continua e di predisposizione di autotutele, che a Londra non avevo mai visto». Da allora, in 20 anni di azienda, Calcagno ha avuto la responsabilità della strategia, del controllo di gestione, della finanza, poi la direzione generale e quindi è diventato amministratore delegato. «Ho una cultura molto quantitativa, mi sono formato nella finanza, sono sempre partito dai numeri, ma mi sono appassionato alla società industriale e tecnologica dei servizi, ho capito che l’impresa è una intelligenza collettiva e una forma di comunità. Lo avevo intuito già prima. Me ne sono convinto ancora di più adesso che il Covid ha costretto tutti a cambiare modello organizzativo».
Nell’Italia del coronavirus è successa una cosa molto semplice: le imprese hanno visto la liquefazione o l’evoluzione della loro identità. «Nel nostro caso, ha prevalso l’evoluzione. Le nuove tecnologie hanno permesso la costruzione di una quotidianità più orizzontale e, in qualche misura, più democratica e emotiva», afferma Calcagno, che aggiunge: «Il coronavirus ha provocato una accelerazione di processi che già esistevano. In fondo, l’adattamento di un organismo come la nostra impresa alla nuova realtà è stata l’evoluzione di una cultura basata molto anche sul welfare aziendale. Di fronte alle inevitabili fragilità dello Stato, le imprese dovranno sempre più prendersi cura del benessere e della crescita dei loro lavoratori e delle loro famiglie. Naturalmente il prerequisito logico e materiale è che siano efficienti e profittevoli. Perché nessun pasto è gratis».
Come dolce, lui prende lo zabaione freddo con i biscotti e io invece una mousse al limone cosparsa di menta. Su questo, Calcagno insiste: «La logica del mercato funziona. Noi crediamo nel co-investimento: nasciamo come una partnership con Aem per la cablatura di Milano, nel 2016 abbiamo appunto costituito Flashfiber con Telecom, operiamo con Linken per coprire nel Paese le aree grigie e bianche, siamo nel 5G con Windtre e ora con Kkr e Tim partecipiamo alla evoluzione di Fibercop. Ma crediamo ancora di più nella competizione fra le imprese e nel mercato. Fra fisso, rete-mobile e mobile in Italia esistono dieci reti. Adesso, nella vita politica e nell’economia pubblica, tutti sono concentrati sulla rete unica. Solo su quella. Ma quando si inizierà ad affrontare la questione che, secondo l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società elaborato dalla Commissione di Bruxelles, noi italiani siamo ultimi per competenze digitali in Europa?».