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 2020  settembre 13 Domenica calendario

Intervista a Javier Cercas

Javier Cercas è uno di quegli scrittori che sono talmente generosi di sé da dissolvere quel distanziamento che gli impedisce di raggiungere Torino per inaugurare la stagione del Circolo dei Lettori. Il suo ultimo romanzo, pubblicato in italiano da Guanda nella traduzione di Bruno Arpaia, s’intitola Terra alta, è un giallo: un genere nuovo per questo autore poliedrico, ma solitamente votato alla narrazione storica.
Che cosa l’ha spinta a «esplorare» questo genere letterario nuovo per lei?
«Tutti i libri che ho scritto prima di questo hanno, in un certo senso, una struttura di giallo. C’è sempre un enigma da decifrare. Ho scritto romanzi storici, ma in cui il passato è sempre in dialogo con il presente. Il passato è una dimensione del presente. Senza di esso, il presente è mutilato. La finzione pura non è possibile: se esistesse, sarebbe incomprensibile. Uno scrittore non può che attingere alla vita, alla realtà, e anche, inevitabilmente, a una misura di autobiografia. Terra alta ha di diverso dai miei libri precedenti il fatto di essere un giallo dichiarato. Perché penso che uno scrittore debba reinventarsi, essere pronto a cambiare, rinnovare: sentivo il bisogno di imboccare una strada nuova. Ho paura di diventare l’imitatore di me stesso, di ripetermi. E così mi sono cimentato con un romanzo che è radicalmente diverso ma anche radicalmente fedele al mio percorso letterario».
Terra alta è un romanzo che lascia il lettore con il fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina, e per svariati motivi... Avrà un seguito?
«Sì! Deve diventare un affresco, voglio che questo libro sia il primo di tre, quattro romanzi. Ho trovato un mondo intero, in Terra alta, e ho molta voglia di esplorarlo. Non a caso questo libro segna per me il ritorno alla terza persona, che non è solo una questione formale, ma una svolta nella mia scrittura».
I suoi lettori di tutto il mondo apprezzano certamente questo proposito. Terra alta è infatti un libro complesso, spiazzante nel senso migliore del termine, se non altro perché il vero mistero da risolvere non è tanto un atroce delitto ma Melchor, l’ispettore che deve risolvere il giallo, ma che è egli stesso il giallo.
«Di Melchor sono un po’ innamorato, e un po’ potrei dire come dice Flaubert di Madame Bovary... Non perché io abbia dei trascorsi inquietanti come i suoi, ma perché per me Melchor è un mito. Vede, quello che cerco nella scrittura, nelle storie che racconto, è fondamentalmente l’eroe. L’eroe è colui che ha coraggio fisico e morale, e solo con questo requisito si possono cambiare le cose. Lo dice anche Cartesio, che il coraggio è il presupposto di tutte le virtù. E Melchor, con la sua violenza, con la vita di prima trascorsa nei bassifondi, dà prova di nobiltà e coraggio. Il tema centrale di questo libro non è il delitto che si consuma poco prima che cominci, ma il valore della legge. La possibilità di giustizia che non si deve mai escludere. La nostra capacità di resistere all’odio. Melchor ha cambiato vita grazie a un libro, I Miserabili. È in questo senso il lettore ideale, quello che ogni scrittore sogna, perché come lo ha letto lui, quel libro, non lo ha letto nessuno. Del resto, è proprio vero che metà del libro la scrive l’autore, l’altra metà la scrive il lettore. E Melchor prende in mano la propria vita, grazie a quel libro. Questo mi affascina di lui».
Melchor è in un certo senso anche un paradigma della nostra esistenza, in questo presente «invaso» prepotentemente dalla pandemia, fatto di nuove distanze, di misure diverse del mondo. Come è cambiata secondo lei la nostra geografia umana? Come faremo a ritornare «vicini»?
«Temo fortemente che torneremo a essere gli stessi di prima. All’inizio si diceva "ne usciremo migliori", oggi ci rendiamo conto che non sarà così. La pandemia passerà come è passata ogni pandemia, e quando ci sarà il vaccino ce ne dimenticheremo, torneremo ai nostri difetti di prima. Se posso dare una nota di ottimismo, è su questa Europa che ha trovato una coesione impensabile sino a poco tempo fa. All’inizio, è vero, sono prevalsi i regionalismi, si sono alzate le frontiere. Poi tanto la gente quanto molti leader hanno capito che il virus non conosce confini, e così la "ragionevole utopia" di una federazione europea pare oggi meno remota che mai. Ma per il momento siamo in una condizione kafkiana: tutto ci pare assurdo. Questa nostra fragilità, non ci vogliamo credere. Eppure è già successo tante volte...».
La letteratura farà «tesoro» di questa esperienza?
«Pensi all’epidemia di spagnola: ha fatto cinquanta milioni di morti, ben più qualunque guerra mondiale. Eppure in letteratura è assente, nessuno l’ha raccontata. Non ha lasciato quasi traccia, nei libri. Dunque non credo che avremo un grande romanzo sul Covid. Ma credo che questa esperienza possa funzionare da "carburante" per la scrittura, così come capita sempre al dolore. Il fine della letteratura, in fondo, è proprio quello di trasformare il dolore in bellezza».