Capelli lunghi e una magrezza ispirata. Per più di un decennio le sue opere sono state ostacolate in Cina, ora vive tra Londra e Berlino e come Ai Weiwei ha fatto dell’esilio la sua seconda casa. La loro è la storia di un’amicizia ribelle, di esuli che hanno scontato il prezzo della libertà di espressione.
Avete commentato insieme quello che sta accadendo intorno a "Coronation"?
«Mi ha solo detto "è normale!". In fondo tutto questo dimostra che non esiste un paradiso di libertà. L’arte incontra difficoltà ovunque, in Cina come in Occidente. A volte però le cose in Occidente sono ancora più confuse perché si mischiano soldi e interessi. Era già successo. Tempo fa una sequenza del film Berlin, I love you diretta da Ai era stata tagliata perché i produttori volevano continuare a lavorare in Cina».
Come è nata la vostra amicizia?
«Abbiamo quasi la stessa età e abbiamo vissuto situazioni simili. Il padre di Ai, il poeta Ai Qing, è uno dei maggiori letterati cinesi del secolo scorso. Era considerato il poeta della nazione, almeno fino a quando alla fine degli anni Cinquanta venne mandato insieme alla famiglia nello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina. È lì che Ai Weiwei è cresciuto, nei campi di rieducazione dei villaggi isolati. A me è successa la stessa cosa. Mio padre era un diplomatico, siamo tornati in Cina dalla Svizzera quando avevo due anni e a diciannove anni sono stato spedito nella campagna a nord di Pechino per un ciclo di rieducazione».
È passando attraverso queste esperienze che comincia a forgiarsi la vostra indole ribelle?
«È stato soprattutto l’esilio a unirci.
L’esperienza dell’esilio cambia il modo di guardare il mondo, indurisce lo sguardo, rende pietre le parole, le fa tornare all’origine».
"Origine" è anche il titolo italiano della sua ultima raccolta poetica, pubblicata ora da Jaca Book. In inglese è "Root", radice.
«È il destino delle radici quello di trasformarsi in pietre con il passare degli anni».
Ed ecco un altro punto in comune con Ai Weiwei. Non s’intitolava "Radici" una sua installazione?
«È proprio osservando quella mostra a Berlino, in cui erano esposte enormi radici provenienti dal Brasile, che ho avuto l’idea di questo progetto».
Come mai ha dovuto abbandonare il suo paese?
«Perché dopo Tienanmen avevo espresso opinioni che non piacevano. In quei giorni ero in Nuova Zelanda e seguivo da lì gli avvenimenti.
Ultimamente nonostante i controlli sono riuscito a tornare spesso. Lì c’è mio padre, ha 98 anni e sento il bisogno di andare a trovarlo».
Ha fatto molto discutere il fatto che nella poesia intitolata 1989 lei scriva: "questo senza dubbio è un anno perfettamente ordinario"?
«Anche i miei amici erano scioccati.
Mi dicevamo: come puoi definire "ordinario" quanto è successo? Ma per me quel verso significa altro, è un modo per dire che quel dramma non era inaspettato, che apparteneva anche alla memoria del passato e che poteva riaccadere. In un’altra poesia, Elegia della realtà , non menziono Tienanmen ma descrivo una camminata attraverso la piazza. Mi è arrivata una telefonata da parte di funzionari governativi. Quello che avevo scritto non era piaciuto, doveva essere ritirato».
Che cosa disturba delle sue poesie? In fondo la sua lirica è simbolista, ricca di immagini dark e simboli gotici con pochi riferimenti diretti alla realtà.
«In effetti io e i miei amici venivamo definiti i "poeti oscuri". Ma era proprio quell’oscurità a insospettire il governo che non aveva appigli per controllarci. Non capivano cosa dicevamo ma odoravano che nei nostri versi c’era qualcosa di sbagliato e per questo ci consideravano pericolosi».
Perché non parlare chiaramente della società?
«Per andare oltre la superficie, oltre la cronaca. Per non cadere negli slogan politici semplici e cogliere l’esperienza profonda della vita.
Credo che questo tipo di ritorno alle origini della parola, questo scavo, sia molto più politico di una descrizione realistica».
È ancora in contatto con gli amici poeti cinesi?
«Sentospessoalcunieditordelmagazine online SurvivorsPoetry, larivistacheho contribuitoafondarenel1988.Ci consideravamodei"sopravvissuti"nello spirito,ancheseTienanmencihamesso duramenteallaprova».
Come ha iniziato a scrivere versi?
«Mio padre amava la letteratura cinese classica e da bambino mi leggeva sempre poesie ad alta voce.
Credo di averne introiettato il ritmo.
Ma è quando mia madre è morta, nel 1976, che ho sentito la necessità di scrivere in prima persona. Forse è stato il mio modo per sublimare il dolore, per continuare a parlarle».
Si è fatto il suo nome per il Nobel alla letteratura, è stato mai contattato dall’Accademia svedese?
«Sarebbe bellissimo e importante portare la letteratura contemporanea cinese all’attenzione mondiale. Ma non ho un collegamento diretto con l’Accademia, l’unica cosa che posso continuare a fare è scrivere poesie.
Possono censurare i nostri libri, ma non distruggere la poesia».