la Repubblica, 13 settembre 2020
È iniziato il negoziato tra talebani e governo afghano
I Talebani si sono seduti, e trattano. Hanno accettato una controparte che fino a ieri definivano “fantoccio dell’America”, discutono e dunque sono pronti a moderare qualche eccesso, a limare qualche pretesa, ad accettare qualche compromesso. Il negoziato partito ieri a Doha, sia pure con sei mesi di ritardo, apre davvero, per la prima volta, la strada per la pace in Afghanistan. Non sarà un percorso facile, e anzi ogni tema in discussione rischia di rompere la fragilissima intesa preliminare, quella cioè che ha portato una delegazione di “studenti coranici” e una di rappresentanti delle istituzioni di Kabul a guardarsi in faccia. Ma già questo è un successo. E i diplomatici che seguono i lavori per una volta sembrano combattuti fra la prudenza di facciata, obbligatoria nel loro mestiere, e una insolita vena di ottimismo.
Le immagini che arrivano dalla capitale del Qatar mostrano i delegati del movimento integralista seduti in perfetto ordine sulle poltroncine del Centro congressi, nell’hotel Sheraton, lontani a sufficienza per rispettare le regole del distanziamento sociale. Molti indossano la mascherina, tutti hanno scelto lo shalwar kameez, la tunica della tradizione, di un bianco abbacinante. Par quasi di poter dedurre che anche loro, invitti eredi del mullah Omar, l’hanno capito: ci sono momenti in cui si combatte, con fierezza, sacrificio e dedizione totale, e altri in cui si deve mettere da parte le armi e affrontare lo scontro sul terreno della politica. In fondo possono avvicinarsi al bivio fondamentale della Storia afgana sapendo che forse per avviare trattative con il nemico serve più coraggio che per sparargli addosso.
Tutti i negoziatori sanno bene che il Paese è allo stremo. Senza sicurezza l’economia è paralizzata, e la pandemia ha ridotto ancora le capacità di sopravvivenza. Così l’accensione di una scintilla di speranza, dopo quarant’anni di guerra, è talmente abbagliante che rischia di far dimenticare gli ostacoli. I nodi più intricati della trattativa non sono quelli già sciolti fra i Talebani e la Casa Bianca: i primi chiedono la partenza di tutti i militari stranieri, Trump non vede l’ora di accontentarli, anche a costo di forzare le riserve degli alleati, Italia compresa. Gli Usa non vogliono un nuovo 11 settembre, cioè pretendono l’impegno a non permettere che l’Afghanistan torni a essere base di attentati all’estero.
E su questo punto i militanti hanno imparato la lezione, solo i più fondamentalisti sembrano riottosi e disposti a confidare nell’Isis- Khorasan per proseguire la jihad. Lo scambio dei prigionieri, poi, anche fra mille problemi è andato avanti. Persino per i sei Talebani protagonisti di attentati contro truppe occidentali è arrivata una soluzione: non saranno liberati, ma mandati agli arresti domiciliari in Qatar.
Dunque restano da sbrogliare questioni più complesse: quale sarà la forma dello Stato, come sarà applicata la legge islamica, come saranno tutelati i diritti delle donne e delle minoranze. «L’auspicio è che i Talebani abbiano capito che l’Afghanistan è cambiato, e non può tornare a quello che era vent’anni fa», dice al telefono da Kabul Stefano Pontecorvo, alto rappresentante della Nato nel Paese asiatico. Il ruolo delle donne è un tema che l’Occidente considera fondamentale, tanto che ieri un centinaio di personalità internazionali, da Hillary Clinton a Colin Powell, da Condoleezza Rice a Laura Bush, hanno firmato una lettera dell’ex segretario di Stato Madeleine Albright per chiedere il rispetto dei traguardi raggiunti dalle afgane. Ma se il richiamo poteva servire fin quando le trattative erano fra gli “studenti” e l’inviato di Washington Zalmay Khalilzad, ora si innesta sul nodo fondamentale della questione afgana: quanto islamico sarà il futuro del Paese.
Documenti filtrati nei giorni scorsi attribuivano ai Talebani l’intenzione di restare fermi sull’idea di un emirato islamico come forma statuale prediletta. Ma sembra molto difficile che i Paesi confinanti, dall’Iran al Tagikistan, dall’Uzbekistan al Pakistan e alla Cina, possano accettare di avere vicino un focolaio integralista. La prospettiva di moderazione sembra consolidarsi anche perché l’Occidente ha ancora una leva da usare: dovrà compiere un g esto di fiducia facendo partire i soldati prima di vedere come i Talebani si comporteranno nel concreto, ma il suo contributo resta indispensabile per ricostruire il Paese. Una nuova era fondamentalista, insomma, sorgerebbe solo su un panorama di macerie.