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 2020  settembre 13 Domenica calendario

Il destino di Venezia visto da Barbieri e Giavazzi

Trentotto miserabili milioni di euro. Bagigi, per dirla in dialetto veneto, rispetto ai due miliardi di sprechi buttati nella costruzione del Mose a causa della «corruzione delle leggi, ossia l’aver affidato i lavori in laguna in regime di monopolio». Anni di inchieste, manette, processi per capire «come» fossero stati spesi per le paratie mobili alle bocche di porto 6,4 miliardi di euro (quattro e mezzo più di quelli fissati nel 1998) e tutto il calderone giudiziario, politico e mediatico è evaporato in una nuvola di fumo: il recupero alle casse pubbliche di meno del 2% del tesoro svanito.
Una gestione che grida vendetta a Dio. Tanto più che quelle dighe che dovrebbero proteggere Venezia dall’aqua granda e furono immaginate mezzo secolo fa, illustrate con un enorme prototipo nel 1988 da Gianni De Michelis («La fine lavori arriverà nel ’95, salvo piccoli slittamenti») e avviate con la posa della prima pietra berlusconiana nel 2003, non sono ancora pronte.
Eppure Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, nel libro Salvare Venezia (Bur Rizzoli) in uscita martedì, scritto nella scia di Corruzione a norma di legge di cui riprende ed integra alcune parti, dedicano a quell’umiliante «dettaglio» della somma recuperata poche righe in coda all’appendice «I sommersi e i salvati». Dove sono riassunti, senza una parola di commento, i destini dei protagonisti dello tsunami giudiziario del 2014. Destini secondari, perfino nei casi più infami, rispetto all’enormità di quanto è successo. Giudichino i cittadini...
«Qui non si vuole discutere dell’adeguatezza dell’opera», scrivono Barbieri e Giavazzi, «non siamo in grado di giudicare. Ma la domanda che va posta è se una scelta tecnologica fatta quasi mezzo secolo fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi e benefici... Si dirà che oggi è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”. Ed è una domanda che vale la pena farsi anche se questa fosse la volta buona e davvero (noi ne dubitiamo) il Mose fosse completato entro un anno».
Per capirci: «L’aqua granda del 2019 ha da un lato avuto il merito di riportare all’attenzione del mondo il tema della fragilità di Venezia, ma dall’altro ha avuto il torto di limitare il dibattito al solo Mose. I politici arrivati in piazza San Marco con gli stivaloni al ginocchio – dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte al ministro per i Beni e le Attività culturali Dario Franceschini, da Matteo Salvini a Silvio Berlusconi – hanno ripetuto tutti la stessa frase: «È necessario terminare il Mose, se fosse stato in funzione tutto questo non sarebbe accaduto». Tutti a far finta di credere che il problema di Venezia sia di ingegneria idraulica, ossia le acque alte (e in parte lo sono), per non affrontare le vere questioni che, se messe sul tavolo, potrebbero far venir meno ricche posizioni di rendita e molti voti». A farla corta, «è del tutto evidente che l’opera va portata a termine perché non è accettabile che siano stati buttati a mare oltre 6 miliardi di euro. Ma è altrettanto evidente che non sarà la “grande opera salvifica” che guarirà per sempre le ferite della città». Ecco il tema. Non affrontato certo il 10 luglio scorso quando in un «limpido giorno d’estate, cielo azzurro e mare piatto» (altro che le onde di 5 metri in mare e le raffiche di vento a 120 chilometri l’ora del 12 novembre!) le paratie furono infine sollevate: solo una «photo opportunity».
Eppure sì, Venezia può essere davvero salvata. Purché si capiscano gli errori del passato, come quelli di Matteo Renzi di chiudere nel 2014 «la struttura sbagliata: non il Consorzio Venezia Nuova ma il Magistrato alle Acque» e di pensare che per finire i lavori «bastasse affidare la gestione delle cose all’Anac». Col risultato che alla lunga, in un surreale gioco delle parti, hanno finito per essere accusati dei ritardi proprio loro, i commissari che avevano messo il naso nelle malefatte dei soliti corsari del potere.
Basta. «L’acqua alta del novembre 2019 ha forse avuto il merito di mostrare che è arrivato il tempo di un vero gesto di coraggio da parte della politica: chiudere per sempre il Consorzio Venezia Nuova e aprire finalmente la salvaguardia della laguna al mercato internazionale». Certo, gli stranieri saranno scottati dai precedenti, come l’impegno nel 2002 con la Ue di bandire gare europee per il 53% dei lavori ancora da svolgere, impegno rinnegato e ridotto al 5%. Ma «qualcuno che raccolga la sfida di mettere al riparo Venezia dalle acque alte eccezionali, e anche i molti denari per la gestione e la manutenzione dell’opera, si farà avanti».
Ma come saranno gestiti i soldi in arrivo dall’Europa? «Non più un soldo pubblico senza un progetto!», rispondono gli autori di Salvare Venezia, «Perché se il progetto è solo il turismo a buon mercato e la ricca rendita che esso produce, allora meglio la Walt Disney Corporation». Una provocazione come quella lanciata dall’«Observer»? Certo: paradossalmente «avrebbe tutto l’interesse a gestire la città in modo oculato, facendo sì che fra trent’anni essa sia ancora un luogo attraente per i turisti e redditizio per se stessa». E più rispettosa per chi ci vive...
Ma quale può essere il progetto giusto per convincere l’Europa? «Bisogna creare le condizioni per il ripopolamento della città, e poi lasciar decidere ai cittadini il loro futuro. Sapendo che le risorse ci saranno, ma non per progetti che trasmettono alle generazioni future un luogo finto, una Disneyland appunto. Certo, ci sarà sempre una domanda di luoghi finti, ma non è con luoghi simili che una città o una regione cresceranno nel mondo post-Covid. I luoghi finti attrarranno sempre più chi ha meno capacità di spesa, come stava infatti già accadendo a Venezia». Un destino da turismo discount. Ma proprio quanto è accaduto con il lockdown imposto dalla pandemia che «ha restituito ai veneziani e al mondo un’immagine inedita della città: una Venezia riconciliata con la natura, con pesci e alcuni molluschi tornati in Canal Grande», può aver cambiato tutto: «Chi non ha possibilità economiche dovrà restare nelle città affollate e più esposte ai rischi del contagio, ma chi potrà permetterselo si trasferirà a vivere e lavorare in luoghi piacevoli. E con questi nuovi abitanti, svuotando le grandi città, arriveranno anche i servizi». Vale per New York, può valere per «quella Venezia» intravista.
Del resto, Venezia ha già dimostrato nella sua storia di avere formidabili capacità di salvarsi. Ci riuscì nel 1330 quando con grandi interventi idraulici «salvò la laguna che altrimenti, come invece è poi successo a Ravenna, sarebbe stata riempita dai detriti dei fiumi che vi sfociavano». E ci riuscì ancora nel 1348 quando la città, prostrata dalla peste che in pochi mesi aveva dimezzato i suoi abitanti, scesi a poco più di quelli di oggi, fu ripopolata (come racconta nella sua Storia di Venezia Alberto Tenenti) offrendo incentivi straordinari: «Qualsiasi debitore della Camera dell’armamento, se fosse rientrato in città prima di sei mesi, solo o con la famiglia e le masserizie, purché s’impegnasse a restare almeno due anni avrebbe ottenuto il totale condono dei suoi debiti e avrebbe potuto navigare liberamente su qualsiasi vascello. E chiunque si fosse venuto a presentare ai provveditori, anche con la famiglia, a condizione d’insediarsi a Venezia per almeno due anni continui, avrebbe acquisito i diritti di cittadino di Venezia de intus». Oggi, forse, ci vorrebbe qualcosa di più. Però...