ItaliaOggi, 12 settembre 2020
Orsi & tori
Non era mai successo che una banca dello Stato, anche se particolare come Amco, si trovasse in conflitto con le due più importanti banche italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit. È successo per il concordato fallimentare del gruppo Ferrarini, uno dei più importanti in Italia nel settore dei salumi. Quasi una disfida di Modena e Reggio. Amco, ex Sga, la società nata storicamente per raccogliere la parte bad bank del Banco di Napoli, è guidata da una donna forte di carattere e di professionalità come Marina Natale, ex direttore finanziario di Unicredit, scelta per il ruolo di amministratore delegato dal direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera. Amco ha affiancato il gruppo Pini (bresaola della Valtellina) nella presentazione al giudice del tribunale fallimentare della proposta di acquisizione dell’azienda Ferrarini. A questa proposta è favorevole anche la famiglia Ferrarini, rappresentata da un’altra donna volitiva, Lisa Ferrarini, ex vicepresidente della Confindustria, che in questo modo, per accordi specifici, manterrebbe un ruolo nella società. Complessivamente Ferrarini ha debiti per circa 300 milioni. Amco, che ha ereditato i crediti di Veneto Banca e di Banca popolare di Vicenza, fallite, vuole recuperare dall’operazione circa 40 milioni. Ma a giudizio delle due più grandi banche italiane, con la proposta Pini-Amco-Ferrarini i loro crediti verso la società di Reggio Emilia verrebbero recuperati in una piccolissima parte, mentre con la proposta da loro avanzata assieme ad alcune aziende del settore aderenti alla Lega Coop (Bonterre, che gestisce Grandi Salumifici Italiani, Parmareggio e la cooperativa mantovana di allevatori di suini Opas) e HP (società attiva nel sostegno e nell’innovazione dell’agrifood) non solo il recupero dei loro crediti sarebbe più consistente ma in questo modo verrebbe salvata e rilanciata l’intera filiera del settore.La legge fallimentare, riformata dal governo di cui faceva parte come ministro dello Sviluppo economico il banchiere Corrado Passera, dice che se qualcuno offre per un concordato almeno il 33% dei debiti si assicura la società in concordato e nessuno può rilanciare. L’offerta di Pini-Amco con un ruolo molto attivo di Lisa Ferrarini ha offerto meno del 33% dei debiti e per questo Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno potuto rilanciare con una percentuale più alta. Ne è nata una causa legale perché Pini-Amco-Ferrarini hanno rilanciato. Il tribunale dovrebbe decidere il 25 prossimo.
Certamente la sentenza ha importanza per i due gruppi contendenti e anche per i 1.500 creditori, ma per il Paese Italia è in gioco molto di più, ancora di più per il contesto in cui operano le aziende, in particolare le pmi. Per la semplice ragione che il numero di possibili fallimenti e soprattutto di crisi aziendali da gestire da parte del sistema bancario è destinato a crescere in maniera esponenziale e il concordato Ferrarini è una sorta di banco di prova della possibile intesa fra Amco e le altre banche italiane.
Lo schema è infatti semplice da comprendere: da una parte c’è il sistema bancario, che sempre più spesso si trova ad affrontare, allo stesso tavolo, il rischio di perdere i propri crediti e che, per cercare di evitarlo, ricerca l’intesa, di per sé non semplice da raggiungere; dall’altra parte c’è Sga-Amco, che, concepita inizialmente come un ammortizzatore dei crediti non performanti con percentuali limitate di recupero, via via si sta comportando sempre più come una asset manager degli npl, quindi con l’innalzamento dei target di recupero. In altre parole, da una fase in cui Sga-Amco (il nome sta per Asset management company) si accodava più o meno in silenzio alle decisioni delle banche ordinarie, ora, come dimostra il caso di Ferrarini, vuole perseguire obiettivi sempre più alti di recupero, addirittura contrapponendosi a disegni che nascono al tavolo della gestione delle crisi.
Se poi si guarda avanti, la situazione di possibili contrapposizioni si prospetta sempre più rischiosa, perché se va in porto il passaggio ad Amco della parte di Banca Mps con i crediti non performanti, la stessa Amco diventerà sempre più una vera e propria banca, con un potere altissimo ai tavoli di ogni crisi. Infatti, nel portafoglio dell’Mps che verrà scissa ci saranno npl enormemente più consistenti e più numerosi di quelli che ora sono nel portafoglio di Sga-Amco. In gioco ci sono migliaia di aziende in bilico, ma anche la possibilità delle banche ordinarie di non entrare in crisi se ai tavoli di gestione delle crisi non si trova un’intesa con Amco.
Una situazione che non può essere addebitata a Marina Natale, che sta attuando il mandato ricevuto dal Tesoro. Anch’esso legittimo in una logica di efficienza, ma irrealistico per le reazioni a catena che innesta. Se chi deve fare da ammortizzatore vuole recuperare larga parte del suo credito, inevitabilmente alza il rischio di disaccordo e quindi di possibile fallimento delle aziende, alla fine con minor recupero per tutti.
Qui non si vuole dire che Amco debba rinunciare a ottenere il più possibile da crediti in portafoglio, ma piuttosto che fra Amco e Banche sia necessario stabilire un codice di accordo, mentre la vicenda Ferrarini rischia di avvelenare i pozzi. È in corso, infatti, un confronto non solo sul piano tecnico ma anche personale, come la fake news diffusa sul mercato da chi pesca nel torbido e quindi non certo dalle maggiori banche italiane, secondo cui Marina Natale sarebbe stata compagna di scuola di Lisa Ferrarini e che operasse nel suo interesse. L’ex direttrice finanziario di Unicredit cerca invece di attuare il suo mandato per recuperare almeno 40 milioni di euro.
Il mercato degli npl è molto appetitoso per vari operatori e se il salvataggio di Ferrarini fallisse, cioè se non si trovasse un accordo per il concordato preventivo, ci sarebbero ben 300 milioni nominali di debiti da acquisire.
Occorre quindi, al di là delle decisioni del tribunale, un atto di comprensione fra Amco e le due maggiori banche italiane. Perché questo avvenga è necessario che il Tesoro, il direttore generale Rivera e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, analizzino le implicazioni che la prosecuzione dello scontro possono avere sul sistema nell’evitabile prospettiva di una forte crescita dei tavoli di crisi delle società italiane.
Il rischio è altissimo perché nell’ambito della disputa è stato presentato un ricorso al commissario europeo alla Concorrenza, con la tesi che Amco, essendo entrata con il 20% nel capitale nella newco Rilancio industrie alimentari, cioè la società che dovrebbe acquisire Ferrarini dal concordato, potrebbe essere il vettore di un aiuto di Stato. Le argomentazioni del ricorso sono anche altre e in particolare il fatto che la stessa Amco ha concesso un finanziamento di 12 milioni all’azienda operativa.
Sia come sia, se la disputa approda a Bruxelles non può che complicarsi. Tutto ciò rende ancora più necessario un chiarimento su quale deve essere il ruolo di Amco nei confronti delle società in default e delle banche che hanno effettuato i finanziamenti.
I crediti di Amco verso Ferrarini arrivano dalle due banche venete fallite, che sono nell’ordine di 18 miliardi di valore nominale. Se si aggiunge che Amco ha in portafoglio già 33,4 miliardi di crediti provenienti dal Monte dei Paschi e presto potrebbe doversi caricare la bad bank di Mps, si comprende quanto sempre più complesso e più pesante potrà diventare l’impegno della bravissima Marina Natale.
Se non bastasse, ad aggravare la situazione ci sono le nuove regole stabilite dall’Eba (European banking authority) sulla copertura crescente che le banche devono effettuare degli npl ma anche degli utp (unlikely to pay), cioè crediti momentaneamente non pagati ma che riguardano società ancora in bonis. «Una bomba atomica», ha detto giovedì 10 settembre l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, in audizione alla Commissione di indagine del Parlamento sulle banche. «Gli utp sono crediti vivi che vengono trattati come crediti morti quali sono gli npl, per i quali tutti le nuove norme prevedono per le banche percentuali di copertura crescente, che finiranno per determinare la crisi delle banche». Al terzo anno di non pagamento gli npl, se si riferiscono a crediti non garantiti, devono essere svalutati al 100%. Il rischio, secondo Nagel, è di dover ricapitalizzare le banche tra due o tre anni.
Se questa è la situazione e lo è, il caso Ferrarini deve suggerire a tutti di trovare una linea comune sui principi fra quella che, se passa la bad bank ex Mps, diventerà una banca a tutti gli effetti, e il sistema bancario italiano non posseduto dallo stato.
Fino a prima della vicenda Ferrarini, Sga-Amco partecipava ai tavoli seguendo, sostanzialmente, la flotta. L’idea di Rivera di renderla società di gestione/banca con libertà di azione rispetto alle banche ha sicuramente senso, ma appunto se si riesce a definire una linea che eviti gli scontri come Ferrarini.
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Il mercato questa volta ha capito molto prima degli altri che il combinato disposto della sentenza della Corte di giustizia europea e il lancio della società unica della fibra super veloce non è assolutamente un colpo in testa a Mediaset, ma anzi può essere una grande opportunità. E infatti, in borsa, il titolo è salito di una percentuale importante.
Non è un colpo in testa per più motivi. Il principale si è già materializzato: la possibilità di un dialogo fra la maggiore società televisiva italiana e Vivendi che è un gigante a 360 gradi. E il colloquio fra Pier Silvio Berlusconi e Arnaud de Puyfontaine, ceo del grande gruppo francese, consumato nei giorni scorsi anche se solo a distanza digitale, in fin dei conti non fa altro che creare le premesse per riportare a due anni fa il rapporto fra le due aziende. Infatti, allora fu firmato il contratto per essere soci insieme nella pay tv di Mediaset. Poi, talvolta, l’appetito vien mangiando e Vivendi, se da una parte cominciò a sollevare problemi sulla pay tv poi rilevata da Sky, dall’altra cominciò a comprare titoli di Mediaset fino a decidere di non eseguire il contratto della pay tv. Per chi conosce Vincent Bolloré, che di Vivendi ha il comando, non è stata una sorpresa. Il tycoon bretone è un po’ simile a Carlo De Benedetti, quando vede un affare lascia da parte qualsiasi forma di galateo e diventa un animale feroce.
Volevano, Mediaset e Vivendi, essere soci e ora potranno tornare a esserlo per una espansione europea. La pay tv, sicuramente al confronto di Netflix, Amazon Prime e Apple tv, non poteva essere che un chiodo. Lo sanno bene a Sky che cosa hanno dovuto e devono fare per avere un bilancio accettabile. Da produttori e distributori via satellite e via internet di contenuti e informazioni, inevitabilmente si stanno trasformando anche in operatore telefonico, sul modello di Comcast, che da circa un anno ha il controllo del gruppo di televisione a pagamento creato da Rupert Murdoch.
Vivendi è già investito nelle telecomunicazioni, essendo il primo azionista di Telecom Italia e Mediaset ha già dichiarato di essere pronta a investire nella società della rete. Che cosa sta passando nella testa di Bolloré? Difficile dirlo, ma una constatazione può essere fatta: la ex France Telecom ora Orange, una volta meno importante di Telecom Italia, è controllata al 23,5% dello Stato francese, mentre in Telecom Italia ha una quota analoga Vivendi-Bolloré. Un’alleanza con Mediaset può essere molto importante per Bolloré anche in Telecom. Chi ha cervello capisca. Capisca anche la dimensione del disastro fatto da quell’aborto di privatizzazione deciso e attuato per Telecom Italia, in ossequio alla possibilità di entrare nell’euro.