Scrive libri, insegna in Francia. Ora è in libreria con un suggestivo libretto in cui le doti dello scrittore si coniugano con quelle della materia trattata: la fisica quantistica, bestia nera di ogni intelligenza che ha i propri totem in Galileo e Newton.
Hai dato un titolo al tuo libro, edito da Adelphi, abbastanza singolare.
«L’ho chiamato Helgoland, che è un’isola del Mare del Nord. Un luogo battuto dal vento, raccontato da Goethe, che scrisse che su quell’isola poteva sperimentarsi lo spirito del mondo. Una suggestione letteraria, certo. Ma il motivo vero che spinse Werner Heisenberg a trascorrervi qualche settimana nell’estate del 1925 fu un altro».
Quale?
«Glielo suggerì il medico, soffriva di allergia. Quel soggiorno gli servì per fare chiarezza in se stesso e soprattutto per dare un senso a certe idee radicali che lo tormentavano. Concetti che riguardavano la fisica e di cui aveva discusso a Copenaghen con Bohr. Sullo sfondo c’era Einstein che Werner considerava un mito. Sarebbe stato all’altezza di quel mito e altrettanto radicale nel pensare la nuova fisica?».
Lì dunque nacque la fisica quantistica?
«Lì fu messa a punto una grande intuizione. Poi però la teoria dei quanti fu arricchita e in un certo senso completata da quattro fisici: oltre a Heisenberg, Pascual Jordan, Paul Dirac e Bohr. I primi tre erano ventenni. L’unico adulto era Born, quarantenne. All’inizio la chiamavano la "knabenphisyk", la "fisica dei ragazzi". Non credo sia un caso: ci vuole lo sfrenato coraggio dei vent’anni per avere la forza di ripensare tutto in modo così radicale».
Questa svolta radicale fu propiziata per alcuni da Einstein e per altri da Planck. Tu a chi dai la precedenza?
«Planck è stato il primo a scrivere, quasi controvoglia, una formula "quantistica" senza capire bene cosa fosse. Einstein è alla base di diverse idee che sono confluite nella teoria, ma soprattutto è stato il primo a capire che serviva una svolta radicale. Il salto vero però lo ha fatto, vent’anni dopo, Heisenberg. Fu lui l’unico per il quale la motivazione del Nobel diceva semplicemente "per la creazione della meccanica quantistica"».
È vero che Einstein ebbe un rapporto contraddittorio con i quanti? Se da un lato ne coglieva l’importanza rivoluzionaria, dall’altro lo infastidivano i suoi paradossi.
«Sì è vero. Anche se "infastidire" forse non è il termine giusto. Einstein aveva un pensiero di cristallina chiarezza concettuale. Di fronte alle oscurità concettuali dei quanti invitava a una maggiore chiarezza. Non aveva certo torto».
La tua materia di insegnamento è "Gravità quantistica a loop", cosa diavolo vuol dire?
«È un tentativo appunto di combinare quanti e relatività generale. È la teoria su cui ho lavorato, insieme a tanti altri, per oltre trent’anni. È una possibile soluzione al problema. Ma è ancora una teoria ipotetica: non sappiamo se è giusta. Io penso di sì, ovviamente. Ma in generale ne sono certo solo a giorni alterni».
Hai dedicato un libro al tema del tempo. Cosa significa per te il tempo?
«Parlarne vuol dire anche parlare delle nostre emozioni sul tempo. Vuol dire mettersi davanti al nostro rapporto con il tempo, alla perdita, alla morte, e tutto questo è entrato nel mio libro sul tempo. Non penso che la scienza sia separata dalla nostra relazione diretta con la vita».
Scrivi che hai esitato a lungo prima di intraprendere lo studio della fisica. Qual era l’alternativa?
«Filosofia».
Com’eri a scuola?
«Molto rompiscatole. Ribelle. Bravo, in fondo. Ma studiavo quello che pareva a me, invece che quello che mi dicevano. I miei voti di condotta viaggiavano al minimo».
Accennando alla tua adolescenza racconti della noia che provavi davanti alla fisica classica. E aggiungi che per avvicinarti alla meccanica quantistica fu importante Paul Dirac.
«Cominciai a studiare fisica per capire come è fatto il mondo. Il libro di Dirac — I principi della meccanica quantistica — è splendido, perché è limpidissimo nel descrivere la struttura matematica della teoria; non si perde in chiacchiere, ma l’immagine che dà del mondo, l’immagine quantistica del mondo, è di un’astrattezza allucinante. Eppure funziona. Che significa? È un libro che ha spalancato su di me numerose domande».
Molte di quelle domande restano ancora senza risposte. Come è possibile che una scienza entrata di fatto nell’uso quotidiano (pensiamo ai computer) sia così enigmatica?
«È proprio questo l’aspetto stupefacente della fisica quantistica. Le sue applicazioni sono dappertutto nella nostra vita, eppure la teoria resta misteriosa, quasi incomprensibile. Helgoland è un tentativo di spiegare perché: prendere sul serio questo mistero e guardarvi dentro».
"Helgoland" è anche un libro letterario. Un racconto di vita. Accennavi all’influenza che ha avuto su di te il libro di Dirac. Quali altre letture hanno concorso alla tua formazione?
«Ho sempre letto tantissimo. I libri che più mi hanno segnato non sono libri di scienza. Sono I fratelli Karamazov, l’Odissea, l’Etica di Spinoza. Come vedi, i grandi classici. Penso che tutte le idee che abbiamo dentro di noi provengano dalle nostre letture, ma soprattutto da quelle dimenticate».
Quale ambiente familiare ti ha formato?
«La media borghesia di provincia degli anni del boom economico. Sono nato a Verona, una città chiusa verso gli stranieri. E i miei genitori erano "stranieri" perché venivano dalle Marche e dal Piemonte. Non che Verona mi abbia trattato male, anzi, ma non mi ha mai fatto sentire "uno di loro". Fin da piccolo. Ho avuto qualche splendido amico che mi ha accettato sempre e comunque, ma rispetto all’ambiente mi sono sempre sentito diverso».
Come hai vissuto questa diversità?
«È stata la mia fortuna. Mia madre era una donna di straordinaria intelligenza, passionale e tormentata, una combinazione letale. Mio padre era anch’egli un uomo acuto, ma riservato, dolce, affidabile, rasserenante e attento. È stato un padre straordinario. Né l’uno né l’altra erano intellettuali, ma avevano riempito la casa di libri, avevano un rispetto quasi devoto, un po’ tedesco, per la cultura. Io sono sempre stato un ribelle, ma in realtà ho assorbito tantissimo dei loro valori profondi. Non tutti, a dire il vero».
Hai fatto l’università a Bologna negli anni Settanta, la ribellione era di casa allora.
«Passare dal bigottismo e dal mugugno veronese alla sfrontatezza e al libertinaggio bolognese, fu uno shock culturale. Ma il ricordo di quella città in quegli anni è splendido. I colori trovati lì hanno riempito il resto della mia vita».
In una foto ti si vede con i capelli lunghi seduto accanto ad Allen Ginsberg. Sembra quasi che cantiate.
«Ma no, sono stonato come una campana rotta. I capelli lunghi li ho portati fino a quarant’anni. Mi sembravano una piccolissima dichiarazione di irriducibilità. Un bel giorno mi sono guardato allo specchio e non mi piacevo più. E li ho fatti tagliare corti. Comunque, per la precisione con Ginsberg non cantavo, salmodiavo "Ohm"».
Ti piacevano i poeti della Beat Generation?
«Mi affascinavano da ragazzo, perché esprimevano un’immensa libertà e la voglia di un mondo completamente diverso, e mi sono avvicinato a loro ogni volta che ho potuto. Con Gregory Corso feci un po’ di amicizia quando lo incontrai per caso all’uscita della Feltrinelli di Piazza Argentina, a Roma. Poi ci fu Gary Snyder, il "poeta dell’ecologia profonda", andai a cercarlo nella comune dove viveva, in California, durante il mio "viaggio di formazione", in solitaria, attraverso il Nord-America, a vent’anni».
Con Ginsberg dov’eri?
«Ero in Italia, salmodiai "Ohm" in una situazione bizzarra, durante il famigerato Festival dei Poeti di Castel Porziano del 1979. Fu uno strano sogno, troppo bello per realizzarsi».
Sostieni che il mondo dei quanti è così pieno di stranezze da aver attratto la cultura hippie. In che senso?
«È stata una frangia marginale, in California. Ma curiosamente ha avuto un’influenza nella discussione sulla meccanica quantistica. Qualche anno fa uscì un libro, Come gli hippies hanno salvato la fisica, che traccia la storia di un gruppo molto alternativo che negli anni Sessanta ha fatto ripartire la discussione sulla fisica quantistica, quando questa si era arenata».
A proposito di influenze, sei d’accordo sul fatto che la cultura europea tra gli anni Dieci e Trenta e la nuova fisica vivono la stessa aria di famiglia, cioè si accorgono di non poter più rappresentare il mondo in modo semplice, lineare, completo?
«L’influenza è stata in entrambe le direzioni. C’è certamente, come dici, un’"aria di famiglia" nell’abbandono dell’idea della rappresentabilità del mondo, all’inizio del secolo scorso. Heisenberg e Schrödinger se ne sono fatti influenzare quando hanno abbandonato la vecchia immagine fisica del mondo. Ma è anche vero che la cultura era molto attenta a cosa succedeva nella fisica teorica e seguiva da presso. Basti pensare a Robert Musil che nel 1923 scrisse una nota sulla teoria quantistica».
La fisica classica ci ha abituati a pensare il mondo in termini di oggetti, cose, enti. La meccanica quantistica viceversa punta sulla relazione. Tu scrivi: il mondo è un continuo interagire. Ora, lasciando da parte le spiegazioni complicate, colpisce che tu ritrovi questo perenne interagire in alcuni testi indiani.
«Immagino che tu ti riferisca a Narjuna e al suo testo Il cammino di mezzo».
Proprio così. Ed è un richiamo che testimonia di una grande apertura verso culture distanti da noi; ma il cui uso a volte è stato ingenuo e superficiale. Quali avvertenze daresti a questo riguardo?
«È vero, si è fatto un uso molto ingenuo e superficiale di testi orientali, ma lo si fa egualmente per i testi occidentali. Questo non deve impedirci di andare a cercare idee. Penso che l’interesse di un testo non sia tanto scoprire cosa volesse veramente dire l’autore. In un certo senso, quelli sono affari suoi, o affari degli storici. A me interessa un testo se mi suggerisce idee che possono entrare in risonanza con il mio mondo, suggerendomi una prospettiva nuova. Si impara sempre dagli altri. E nell’incontrarsi le idee si modificano e si arricchiscono. Rigirare all’infinito i nostri vecchi testi, letti e riletti da noi, mi sembra rischi di diventare sterile».
A volte ho l’impressione che della meccanica quantistica tu abbia fatto quasi una visione del mondo.
«È un’impressione errata. La nostra visione del mondo è fatta di tante cose: dalla nostra politica alla nostra arte, dai nostri amori alla nostra scienza. Cambia e si fa influenzare da ciascun evento, da ciascun passo della conoscenza. Anche, e non poco, dalla fisica quantistica».