Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 12 Sabato calendario

Calcio, i ragazzi dai 16 ai 24 anni non tifano più

Una generazione perduta: i ragazzi dai 16 ai 24 anni non tifano più, oppure lo fanno in modo diverso. Il calcio sta dicendo addio alla figura del tifoso tradizionale, colpa del Covid, del mondo che cambia, del consumo rapido che rende una partita di 90 minuti infinitamente lunga e a volte noiosa. Oggi i giovani preferiscono guardare gli highlights smanettando sullo smartphone alla ricerca del meglio: una carrellata di gol, le novità dai tornei esteri, un video postato sui social dal campione preferito. Tutto è cambiato, non necessariamente in peggio.
L’Associazione dei club europei, l’Eca, ha commissionato un’indagine a tappeto (“Fan of the future”) per capire cosa ci sia oltre il muro delle tribune svuotate, e ha scoperto chi non c’è più. Decine di migliaia di intervistati in sette nazioni del mondo (ma non l’Italia) hanno dichiarato «di avere di meglio da fare» (29 per cento) che non guardare una partita. E il 40 per cento di quel segmento che va dai teenager all’adolescenza dice testualmente «di non avere alcun interesse per il calcio» o addirittura di odiarlo. Molti seguono altri sport e si appassionano alle gesta dei singoli atleti, più che delle squadre. Il 37 per cento di chi conserva comunque una più o meno pallida passione calcistica segue più di un club: il tifo ormai è spalmato su aree di preferenza non solo geografiche, la squadra della propria città non è automaticamente la più amata o la più seguita. Le generazioni social sono rapide, agili, la loro attenzione è ondivaga e va sempre stimolata. Non leggono i classici, non hanno tempo, navigano altri universi. Ma oltre il disamore c’è di più. Soltanto un intervistato su cinque ritiene che il calcio faccia abbastanza a livello sociale. I ragazzi non si riconoscono nei suoi valori, e vorrebbero «più responsabilità dei calciatori e dei club per rendere il mondo un posto migliore». Tra le voci raccolte dall’Eca, molte delle quali femminili, il calcio viene giudicato ancora troppo maschilista e machista, bianco, eterosessuale e quasi per nulla inclusivo, un luogo dove la diversità non solo non viene apprezzata ma è considerata un pericolo. I più giovani hanno capito meglio di altri che oggi lo sport è social currency, moneta sociale, e bisogna avere il coraggio di spenderla.
«Tutto questo è coerente con una generazione più attenta alla giustizia sociale, all’ambiente e all’uguaglianza» dice il demografo Alessandro Rosina, professore alla Cattolica di Milano, colui che cura il Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo. «I social producono non solo conoscenza ma connessione, permettendo di interagire con i propri idoli: oggi un like vale più di un autografo. Questi ragazzi sono digitali ma anche emotivi, entrano in sintonia con i campioni e li pretendono impegnati, non solo bravi in gara. L’appassionato li segue nella loro quotidianità oltre che in area di rigore. Mi pare che questa indagine abbia interessanti risvolti antropologici e ci dica cose che vanno oltre lo sport».
Alla domanda «perché segui il calcio?», solo il 49 per cento degli intervistati risponde «per tifare». Più della metà sostiene di farlo «per divertirmi», «per socializzare», «per i grandi match». Non più tifosi ma follower, gente che segue qualcuno o qualcosa e può smettere di farlo. E la tivù non è più il principale strumento di visione. È il calcio al tempo della second screen experience, ovvero il secondo schermo sempre aperto sugli smartphone o sui tablet: mentre si guarda una partita o i suoi frammenti, si posta qualcosa su Instagram o Twitter, si sbirciano più cose insieme, ci si costruisce una playlist, l’antologia delle cose preferite, tutto on demand e a distanza: quello che il collega Angelo Carotenuto ha definito sportify. In questo universo, solo 11 persone su 100 si dichiarano tifosi accaniti, e appena 14 su 100 appassionati di calcio di vecchia data. Negli Usa già esistono gli smart stadium, impianti dove l’interazione dei vari device è essenziale, dalla ricerca del parcheggio al cibo, ma soprattutto per la visione in diretta e sui palmari di ciò che accade in campo, azioni di gioco e statistiche, video negli spogliatoi e naturalmente pubblicità. Perché c’è sempre una sottotraccia commerciale: l’indagine dell’Eca ha cercato di capire chi sono i nuovi clienti del calcio. «Il web permette di raggiungere chiunque in ogni parte del mondo e all’istante» spiega Nicolò Fabris, responsabile comunicazione del Parma Calcio. Durante il lockdown, il club emiliano ha usato i social in modo molto interessante: «Abbiamo fatto leggere le Fiabe della buonanotte ai nostri calciatori, che attraverso il sito potevano raggiungere i loro piccoli tifosi. E abbiamo organizzato incontri virtuali con le comunità di appassionati anche all’estero. I social sono una grande opportunità ma non potranno mai sostituire le persone, il calcio in presenza e l’emozione di un autografo. In una città come Parma esiste ancora una dimensione famigliare e romantica del tifo, tuttavia gli adolescenti di oggi sono i tifosi di domani. Bisogna parlare la loro lingua».