Tuttolibri, 12 settembre 2020
Le lettere del poeta Osip Mandel’stam alla moglie
«Era il poeta più grande, è difficile dire perché» ha scritto di lui Josiph Broskij, che nei suoi versi vedeva «non il canto di un bardo ma quello di un uccello con le sue subitanee, imprevedibili, spirali e impennate, simili al tremolo di un cardellino». Osip Mandel’stam era ai suoi occhi il simbolo stesso dell’indipendenza della poesia da ogni regime. Ritratto perfetto, per un poeta che si descrisse ad esempio così, in un testo ancora giovanile: «Io, come la natura sono povero,/ e ho la semplicità che hanno i cieli,/ e la mia libertà è illusoria come/ le voci, a mezzanotte, degli uccelli». Ma, come gli altri grandi contemporanei, dalla Achmatova a Pasternak alla Cvaetaeva cari al cuore di Brodskij, Mandel’stam rappresenta anche ad un livello altissimo la tragedia della rivoluzione e del sistema sovietico, che i suoi scrittori imprigionò, perseguitò, esiliò, cercò in ogni modo di ridurre al silenzio, indusse al suicidio e, come in questo e altri casi, direttamente uccise.
Ora, dopo un relativo silenzio editoriale, sta crescendo intorno a lui un nuovo, ciclico interesse. Il Saggiatore aveva già riproposto qualche anno fa La pietra, prima raccolta del 1913, una delle opere che lanciarono l’acmeismo, ovvero un movimento poetico che puntava all’«acme» della realtà, in una sorta di rigenerazione lirica ed essenziale fatta di chiarezza, concretezza, ricerca estrema di valori formali, in contrapposizione (per quel che valgono queste istanze teoriche) al simbolismo. E la casa editrice Giometti & Antonello, dopo I quaderni di Voronez (nel 2017) e la monumentale Opera in versi (2018), pubblica un documento di grande interesse non solo storico, l’epistolario del poeta con la adorata moglie Nadežda Jakovlevna, Lettere a Nadja e agli altri (1917-1938) per la cura di Maria Gatti Racah.
È il diario, lirico e spesso disperato, di un viaggio attraverso la rivoluzione e lo stalinismo, dove il poeta è sempre più prigioniero nella mostruosa gabbia che gli si sta creando intorno il sistema. È il diario di una lotta, ma soprattutto è una grande storia d’amore. Mandel’stam, che incontrò Nadežda nel 1919 per sposarla l’anno dopo, fu spesso lontano da lei per motivi legati alla salute della donna – sofferente di tubercolosi – e alle vicende politiche, agli arresti, ai domicili coatti, al confino; ma non smise mai di scrivere al suo «scricciolo adorato». La chiama con tutti i vezzeggiativi e i diminutivi possibili, non si stanca di iterare all’infinito le dichiarazioni d’amore. «Luce dei miei occhi, sono al tuo fianco giorno e notte, non ti lascio nemmeno per un istante» le scrive nel ’26 da Leningrado – è febbraio, lei è a Jalta, le lettere hanno una cadenza fittissima. «Senza di te tutta la mia vita si spegne e io divento estraneo e superfluo a me stesso» le ribadisce pochi giorni dopo. E dal confino a Voronez – città prossima all’Ucraina - insiste nel ’37, aspettando una sua visita, e quasi mentendo a se stesso: «Sono sano come di rado son stato, e pronto alla vita. La inizieremo, dovunque ci porti il destino. Ora sarò più forte dei miei versi, ci hanno comandato a bacchetta abbastanza. Dai, ribelliamoci! Le poesie allora balleranno al suono del nostro piffero, e poco importerà che nessuno osi elogiarle».
In realtà sta morendo. In quel momento ha alle spalle due tentativi di suicidio, è malato, affetto da crisi nervose e allucinatorie. Lei, come ricorda in L’epoca e i lupi, aveva da tempo preso a imparare a memoria tutti i suoi scritti, per poterli preservare e difendere. Una sua lettera, forse l’ultima, è diventata il testo d’una canzone dei Marlene Kuntz, Osja, amore mio, in un album del 2013. Ma Osip Mandel’stam resta per molti versi un nome segreto, da strappare semmai ogni giorno al tempo e alla storia. Nato a Varsavia nel 1891 da un famiglia ebrea benestante - di cultura russa – studi giovanili a Parigi ed Heidelberg, fu divorato da una rivoluzione nei cui confronti provava al massimo una certa curiosità intellettuale e in cui vedeva, come scrive in una lettera giovanile, tutt’al più un aspetto religioso. Era semplicemente estraneo al nuovo sistema di potere - e per di più aveva relazioni amichevoli con Bucharin, il rivale di Stalin destinato a scomparire nelle purghe del ’38, il che non poteva certo essere d’aiuto. La sua emarginazione cominciò nel ’29, il pretesto fu un’accusa di plagio per una traduzione. Da allora gli fu sempre più difficile lavorare e ottenere incarichi. «Cara, è così dura per me – scriveva nel ’30 -, sempre così dura, e ora non trovo le parole per raccontarlo. Mi hanno imbrigliato, mi tengono come in prigione, non c’è luce… C’è forse bisogno di dirti come sia tutto, tutto, tutto delirante, come un atroce, torbido sogno?».
Nel ’33 compone versi feroci su Stalin, che ovviamente non diffonde ma legge agli amici. «Forgia un decreto dopo l’altro come ferri di cavallo:/ a chi lo dà nell’inguine, o fra gli occhi, sulla fronte o nel muso.// Ogni morte è una fragola per la sua bocca».
Qualcuno lo denuncia ed è arrestato, anche se –incredibilmente - si decide dopo un duro interrogatorio alla Lubianka di risparmiarlo, e mandarlo al confino. Viene però abbandonato da tutti, salvo dalla Achmatova e Pasternak, che gli spediscono qualche soldo per sopravvivere. «Né io né mia moglie abbiamo più le forze per prolungare questo orrore – leggiamo in una lettera dell’aprile ’37 indirizzata allo scrittore Kornej Ivanovi? ?ukovskij - Non solo: abbiamo maturato la ferma decisione di mettere fine a tutto ciò con qualunque mezzo». Riuscirà sì, nel giro d’un anno, a tornare a Mosca, ma solo per essere riarrestato di lì a poco e sepolto nel Gulag, per morire di stenti, nel dicembre del ’38, a Vtoraja Re?ka, un campo di transito presso Vladivostok. Vitalia Šentalinskij, in un libro sugli archivi del Kgb dedicato soprattutto alla memoria degli scrittori, I manoscritti non bruciano, riporta la testimonianza di un compagno di prigionia: «Osip Emilevic? fece tre quattro passi, come per allontanarsi dalla camera di sterilizzazione, levò la testa in alto, orgogliosamente, fece un profondo respiro e crollò a terra. Qualcuno disse: "Cotto". Arrivo la dottoressa con una valigetta: "Cos’avete da guardare, andate a cercare una barella"».