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 2020  settembre 11 Venerdì calendario

Zubin Mehta ha sconfitto il cancro. Intervista

Essere di nuovo alla Scala, farla ripartire dal 15 settembre con un’opera icona qual è Traviata, rende Zubin Mehta di ottimo umore. «La musica per me è come l’ossigeno – assicura il maestro indiano, tra le bacchette più prestigiose al mondo —. Tra il fermo della malattia e il Covid, non ce la facevo più a stare lontano dal podio. E poi Traviata l’ho diretta ovunque tranne che alla Scala. Un debutto a 84 anni».
«Traviata» sì, ma in forma di concerto. Come sarà dirigerla senza avere davanti nemmeno una scena?
«Pensare che avevo accettato proprio per il magnifico allestimento di Liliana Cavani… Dovevamo portarlo in tour anche in Giappone. Tutto cancellato. Ma Traviata è talmente bella di suo e il cast di prim’ordine, (Marina Rebeka, Atalla Ayan, Leo Nucci), che sedurrà con la forza del canto e della musica. E poi qualche piccola azione scenica sono riuscito a farla passare. Violetta avrà un sofà dove esalare l’ultimo respiro. Mica poteva morire in piedi!».
Alla Scala terrà anche due concerti, uno dedicato a Strauss, l’altro a Mahler.
«Bisogna fare quanta più musica possibile, dobbiamo tornare a ascoltarla con gioia e senza timori. I teatri sono tra i luoghi più sicuri. Non sono un ragazzo, esco da una serie di malanni non da poco. Eppure torno a dirigere senza paura».
Come ha vissuto la malattia?
«Un bravo ortopedico, da cui ero andato per un ginocchio, ha intuito che si trattava d’altro. Gli esami hanno confermato cancro al rene, già in metastasi. Tutti sembravano molto spaventati, tranne me. Ho chiamato il mio medico in Israele, mi ha raggiunto a Los Angeles. Sono stato operato da un’equipe composta da un conte austriaco, un medico siriano, due dottoresse greche. Davvero internazionale. Poi ho seguito un protocollo di cure sperimentali. E ora il cancro non c’è più. Ne sono uscito più forte di prima».
Non ha perso tempo. Il 30 agosto a Firenze dirigeva il «Requiem» di Verdi. Cosa pensava in quel momento?
«A chi non ce l’ha fatta ma anche a chi si è speso per cercare di salvare più vite possibile. Una grande preghiera collettiva con un grande cast canoro. Quasi lo stesso di quello di Chailly in Duomo».
A Firenze dirigerà due opere. Stavolta con regia?
«Certo. Otello sarà allestito da Valerio Binasco, Così fan tutte da Sven-Eric Bechtolf. La regia è fondamentale, ma a volte con i registi sono un rompiscatole. Ho avuto a che fare con geni come Strehler e Cacoyannis, con scenografi come Frigerio. Per un’Aida gli avevo detto: voglio vedere il Nilo e il deserto tutto il tempo. E lui me li ha creati. Ma non va sempre così. Ricordo un Fidelio con un regista spagnolo di cui ho rimosso il nome. Ero arrivato che lui aveva già deciso tutto. Quando si è alzato il sipario sono rimasto spiazzato, non riconoscevo neanche il protagonista, che invece di incontrare la moglie in carcere ci parlava al telefono. Ho riso tutto il tempo. Così, prima di accettare una produzione chiedo sempre di incontrare il regista».
Sarà così anche con Martone, con cui farà a febbraio alla Scala «Rigoletto»?
«Il suo Falstaff a Berlino diretto da Barenboim mi è molto piaciuto. Sono certo che ci intenderemo».
Come si trova con Pereira?
«Stiamo imbastendo progetti audaci. Abbiamo invitato nomi come Domingo e Levine».
Entrambi accusati di molestie sessuali.
«Le black list lasciamole al puritanismo americano. Levine è stato distrutto dai media Usa, Domingo costretto a lasciare l’Opera di Los Angeles, che prima di lui era niente. Tutto per denunce che arrivano con trenta anni di ritardo da parte di artisti mancati. Sanno tanto di ripicca».